Il turismo è un diritto che non va limitato ma i comportamenti turistici da massa ne fanno perdere buona parte degli aspetti positivi e provocano gravi problemi ai residenti.

Oriol Nel·lo è geografo, specializzato in studi urbani e pianificazione territoriale e professore presso l’Universitat Autònoma de Barcelona.

Paolo Castelnovi, paesaggista e urbanista, è Presidente della Fondazione Landscapefor, con sedi a Torino e Genova.

Paolo Castelnovi

Partiamo, così come sostieni in una tua recente intervista sui temi dell’overturism, dal fatto che il turismo è un diritto acquisito e che si tratta di valorizzarne gli impatti positivi e contenerne quelli negativi. Tra quelli positivi le possibilità di consolidamento di situazioni socioeconomiche locali in degrado per l’abbandono e la pressione delle città. Per ottenere questi effetti occorre “spalmare” il turismo riducendo il sovraffollamento e promuovendo mete meno frequentate. Ma anche questa strategia sembra inutile, dato che si constata che il potenziamento delle mete minori non incide significativamente sule turismo di massa nelle mete sovraccaricate. Una possibilità forse starebbe nel modificare i comportamenti della domanda: indirizzare il turismo meno alle pratiche di socializzazione e di formazione di esperienze collettive omologate e più alla formazione di esperienze individuali e diversificate, dove il visitatore si senta coinvolto nella cura dei luoghi, nella produzione del tipico, nell’esperienza di un modo di abitare diverso.

Oriol Nel-lo

Occorre fare fronte agli effetti negativi del turismo di massa senza pensare che il turismo per pochi sia la soluzione, perché immediatamente diventa una pratica classista inaccettabile.

Tutti siamo turisti e ci piace poterlo essere.

D’altra parte oggi nelle mete turistiche sovraffollate il trend turistico è inaccettabile, sia ambientalmente che per gli effetti socioeconomici che per la crescente insofferenza da arte degli abitanti. Anche perché crescono in modo esponenziale i costi infrastrutturali e il carico sulla cttà pubblica: a Barcellona il tema del porto e dell’aeroporto da ampliare per i turisti sono osteggiati dalla comunità locale.

Poi c’è un impatto terribile sull’offerta di residenza, ormai inaccessibile economicamente per i giovani o i meno abbienti. Questo ha effetti politici forti, porta a xenofobia e classismo in una società che da due generazioni se ne sta liberando.

Cosa si deve fare? Prima di pensare di dislocarlo e destagionalizzarlo va capito chi paga e chi guadagna in questo trend.

In urbanistica la costruzione di edifici è stata da tempo accompagnata con obblighi di opere urbanizzative e di cantieri controllati, più o meno applicate dovunque. Nel turismo questo manca sia negli effetti di redistribuzione dei redditi per pagare i costi sociali, sia per le condizioni lavorative, per le quali non si applicano i normali criteri di salute, tutela e garanzia dei diritti dei lavoratori.

Questa è una questione basilare, che va affrontata e risolta prima di tentare ogni altra soluzione territorialista o funzionalista di distribuzione.

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Oggi chi lavora per il turismo è spesso tra i meno tutelati e viceversa fornisce servizi banali ai visitatori, che sono spesso poco accompagnati a godere dei luoghi che visitano. Occorre potenziare le esperienze a contatto diretto con il territorio.

Paolo Castelnovi

Il turismo va certamente affrontato anche come settore produttivo che deve trovare al suo interno equilibri sociali, economici e politici, ma occorre anche tener conto che si sta modificando il rapporto “di mercato” domanda-offerta in ragione di cambiamenti culturali della domanda.

Pensiamo che la domanda di cultura oggi, data l’offerta ormai separata dalla società per la parte scolastica e e quella senza investimenti e progetti ormai da generazioni per la parte di formazione permanente, cerca sbocchi in altre direzioni. Negli anni scorsi abbiamo scommesso sulla domanda di cultura sul luogo di lavoro, ma il digitale ha alterato il quadro di riferimento e oggi si forma un piccolo esercito di specialisti, mentre gli altri lavoratori sono ridotti al ruolo di utenti.

Invece sembra crescere la domanda di cultural di luoghi altri, connessa alla conquista recente del diritto al viaggio (che è il nuovo livello del diritto alle vacanze delle battaglie storiche del socialismo).

E’ una domanda inesperta e poco organizzata, ma si appoggia ad una curiosità legata al piacere della vacanza, del diverso, che apre ad una prospettiva di condivisione culturale di valori ricchi di innovazione. A fronte di questo manca quasi completamente una adeguata offerta culturale, come strumento per un nuovo livello di sapere empirico, esperienziale diffuso e “autentico” che sembra la cifra delle nuove generazioni.

Oriol Nel-lo

Questo ci porta a pensare come organizzare in modo diverso la offerta turistica, spostandola da offerta di mercato a offerta sociale, da una concezione di turista come consumatore al turista come conoscitore, da una attività ricettiva individuale a una attività collettiva.

Il turismo dovrebbe socializzarsi, anche se le forme di turismo sociale hanno un prestigio bassissimo, come le ferie al mare o in montagna per gli anziani che in Catalogna sono un diritto acquisito che si pratica a livello di massa con settimane fuori stagione nelle località balneari..

Come introdurre la cultura come fattore determinante del turismo?

Se noi concentriamo l’interesse sul conoscere in modo approfondito e condiviso con gli abitanti un pezzo di territorio, forse non occorre spostarsi tanto ma possono servire gli infiniti valori del turismo di prossimità sia per la sostenibilità ambientale che per la condivisione identitaria.

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Chi rifiuta il consumismo del turismo di massa e anche l’offerta di “eslcusività” del segmento alto del mercato, cerca invece esperienze vicine alla vita quotidiana di luoghi diversi, anche se comunque si corrono sempre rischi di sfruttamento insostenibile delle risorse deboli.

Paolo Castelnovi

L’ipotesi di lavorare sul turismo di nuova generazione risponde anche alla crescente tendenza riscontrata nelle nuove generazioni, di reagire al consumismo in modo radicale, con stili di vita molto sobri, sostenibili anche con rediti modesti (derivanti da lavori saltuari o altri aspetti marginali). Queta tendenza, per ora di piccoli numeri, spinge a cercare nuovi luoghi dove stare, per periodi più o meno lunghi, anche lontano dalla città, dove l’abbandono abbatte i costi e si incontrano offerte impensabili nelle aree urbane.

Al confronto con questa domanda il turismo come lo conosciamo è una forma di consumismo da combattere, anche nelle forme collettive sociali, perché non corrisponde tanto al piacere della conoscenza di luoghi diversi, quanto al piacere di essere serviti, di sentirsi per qualche giorno signori. Paradossalmente quel tipo di domanda turistica chiede di svolgersi in non-luoghi (vedi le prestazioni ormai standardizzate degli alberghi, dalle colazioni alla spa). Quella nuova va al contrario a cercare luoghi inesplorati, abbandonati, spesso ormai privi anche delle comunità locali, per offrirsi ad una esperienza primaria, diretta, di conoscenza pratica esperienziale ed emozionale, in cui i confini tra turismo e residenza si assottigliano sempre più.

Orio Nel-lo

Sarebbe una forma interessante di integrazione territoriale rispetto a zone in abbandono, talvolta relativamente vicino alle grandi zone urbane.

Ma ci sono comunque aspetti critici ancora da superare:

primo: chi gestisce questa offerta e a chi vanno i benefici? Non basta promuovere questo tipo di attività se non si pone attenzione ad aspetti ormai diffusi che riducono di molto la portata innovativa di trend del genere. Ad esempio il problema della casa, che in intere aree come la Catalogna ha ormai superato la capacità di investimento di chi parte da zero, anche nel più sperduto dei borghi. Iniziative che partono come molto positive diventano velocemente negative perchè innestano spirali dei prezzi insostenibili (essendoci ormai una domanda anche di luoghi isolati e scomodi, molto superiore all’offerta.

Dopo una brevissima stagione promettente il costo delle poche case esistenti diventa molto alto perché pagato dai cittadini che usano il territorio disperso per le vacanze (sempre più brevi) e le case diventano troppo costose anche per i figli stessi degli abitanti locali, di fatto espropriati (ad alto prezzo monetario, ma comunque allontanati per sempre) e i villaggi restano vuoti per il 90% del tempo.

La capacità di attrarre va governata per evitare le speculazioni, non solo sulla casa, ma sui prezzi del commercio. Occorre evitare le ricadute perverse che sono di fatto implicite con il livello di attrattività: in Spagna non è dappertutto, ma in Catalogna, nei contesti isolani, nel Paese Basco.

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I nuovi attrattori e i nuovi servizi sono tutti da inventare e sperimentare. Tutto è reso più difficile perché spesso manca una comunità locale ancora forte abbastanza da saper ospitare culturalmente i nuovi visitatori.

Paolo Castelnovi

Lo stesso da noi ha prodotto il turismo invernale in intere regioni (Val d’Aosta, Trentino e Sud Tirolo). Comunque vanno ripensati anche i servizi impliciti con questo nuovo modello di turismo e di insediamento: sono meno importanti le strade dell’accesso a Internet, i parcheggi degli orti.

Anche per il tema della gestione, di cui condivido l’importanza fondamentale, ci sono esperienze interessanti: ad esempio i sindaci che coordinano in alta Val di Brenta l’assegnazione di terrazzamenti a fronte della manutenzione dei muri a secco, etc.

Si formano nuovi abitanti saltuari che sono sia produttori che consumatori, anche in forma individuale, che utilizzano beni che è bene non consentire di consumare e di abbandonare.

Questo porta al tema dei beni comuni, che in Italia ha sin dal Medioevo una tradizione importante negli “usi civici” , beni comuni suddivisi tra tutte le famiglie della comunità per produzioni utili all’abitazione (legna da fuoco, pascolo estivo o invernale, fonti idriche etc.).

L’abbandono dell’agricoltura li ha fatti dimenticare , ma per molti secoli hanno costituito un modo d’uso del patrimonio comune esterno al mercato.

È una modalità interessante, anche ON

Quella dei bei comuni è la terza strada, quella alterativa sia al mercato che allo Stato.

L’idea è ottima ma anche qui vanno superate difficoltà strutturali:

la prima è insita nella nozione stessa di comunità, ormai decaduta quella rurale e stabile. Rimane da capire da chi è formata oggi la comunità che è di fatto proprietaria del bene comune: sono solo i residenti o quelli che ci lavorano

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Il tema da approfondire a questo punto è quello delle nuove comunità locali, che sempre più saranno fatte anche da estranei, visitatori appassionati dei luoghi.

Paolo Castelnovi

Parafrasando Forrest Gump potremmo dire che “comunità è chi comunità fa” . La comunità è di chi consolida i beni comuni. Ormai in molti posti di montagna i frequentanti partecipano alla redazione dei programmi di festività e dei piani come e più degli abitanti.

Oriol Nel-lo

È vero.. anche sui Pirenei accade lo stesso. Questa pratica di gestione dei beni comuni non dovrebbe essere limitata al turismo, ma anche ampliarsi e entrare a pieno titolo nel processo come soggetto principale: ad esempio formando società che comprano comunitariamente edifici e spazi pubblici abbandonati, per poter evitare i processi di accumulazione delle rendite e di distribuzione solo dei costi e degli impatti sui prezzi.

Purtroppo le azioni locali sul paesaggio e la cultura, spesso interessanti e sempre più diffuse, mancano però quasi sempre del risvolto economico e proprietario che garantisca la continuità di gestione comunitaria (forse anche perché i promotori sono spesso parte di una classe media senza problemi economici ma anche senza capacità di progetto e di gestione in quel settore).

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Ci sarà un lungo periodo di compresenza di territori con comunità ancora vive e viceversa altri tutti da ricostituire, ma in ogni caso sembra che il fattore innovativo migliore sia quello culturale, più di quello economico o sociale, importanti ma solo complementari.

Paolo Castelnovi

In ogni caso il Sindaco di un piccolo comune è ancora il punto di riferimento per ogni progetto che faccia fronte ai problemi, sempre complessi e integrai anche nella piccola dimensione della sua comunità. Oggi in quelle situazioni quasi sempre il turismo si presenta come l’unica prospettiva in cui si può pensare di affrontare il futuro. Ma d’altra parte manca una capacità di progettazione e di intervento nel senso comunitario qui tratteggiato da parte della classe tecnica e imprenditoriale che è sempre molto legata ai criteri di valore e di funzionamento della città e del mercato.

La cultura non tecnica ci pare l’unico fattore di aggregazione, l’unico linguaggio che possa catalizzare energie e interessi sul tema. Saranno valori tipicamente cittadini a dare nuovo vigore al progetto dei territori più lontani dalla città, e meno male, dato il fallimento della cultura rurale nel nostro tempo.

Oriol Nel-lo

Mi pare buona l’idea di imparare a usare il capitale territoriale, che in gran parte è un bene comune, entro un progetto di valorizzazione della comunità, anche se diversa e inaspettata.

Invece ho problemi sulla personalizzazione del Sindaco come agente portatore di novità. Nella mia esperienza catalana è vero il contrario…. Spesso il sindaco è portatore di interessi conservatori e privatistici. E’ solo dove c’è una capacità comunitaria indipendente che il sindaco talvolta rappresenta la comunità, se no spesso coincide o è al servizio del cacicco locale (che ha la mandria maggiore, il supermercato, la fattoria più importante etc.), spessissimo presente con tutta una tradizione tribale e paramafiosa alle spalle, benissimo adattata al capitalismo moderno.

Quindi per noi diventa importante rinnovare la definizione di comunità, e il portato culturale delle aree più urbane, liberale e poco gerarchico può formare il nuovo riferimento per la comunità mancante e serve ad avere le idee e la grinta innovativa del progetto che valorizza i beni comuni.

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Contano comunque le tradizioni di attività sui beni comuni, l’abitudine a pensare in termini collettivi e non solo di impresa o sfruttamento personale, e queste non sono facili da trovare nelle nuove generazioni.

Paolo Castelnovi

Concordo con la difficoltà a trovare progetti e gestioni capaci di innescare processi comunitari se non sono già presenti almeno in qualche pratica culturale/colturale locale.

In Italia la montagna porta molte tradizioni di questo genere, soprattutto a nord di Roma, e lì si incontrano sindaci impegnati e beni comuni utilizzati al meglio. Il declino demografico delle vecchie comunità porterà a una vera e propria rivoluzione di cui è importante immettere energie e progettualità che non facciano perdere di vista i requisiti fondamentali del bene comune. Sicuramente l’apporto culturale “urbano” sarà fondamentale, dato che non sarà più la ripetizione e l’abitudine alla fatica a consentire i nuovi rapporti comunitari, ma altri valori, molto più relazionali e integrati, anche economicamente, tra città e montagna.

Oriol Nel-lo e Paolo Castelnovi

È un cambiamento molto interessante anche sociologicamente e psicologicamente, perché richiede una rivoluzione nei rapporti base, di genere, intergenerazionali, tra locali e forestieri, tra lavoratori manuali e della mente eccetera.

Questo sta avvenendo comunque e sta cambiando l’agenda e provocando reazioni e resistenze, ma comunque avviene e sono d’accordo che occorre monitorare il processo e trovare le modalità per inserire nuove strumentazioni giuridiche e formali utili.

Ad esempio sarebbe interessante monitorare come come si stanno comportando con l’acqua e con i boschi, che in certe aree rimangono beni comuni, in altre vengono privatizzate, anche sotto la pressione delle industrie che ne fanno usi produttivi diversi da quelli tradizionali.

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Il turismo di nuova generazione è certamente una sorta di veicolo per innovare le relazioni tra città e aree in abbandono e per innescare processi di sviluppo locale più basati sul riconoscimento dei beni comuni e la loro valorizzazione, a partire da quelli culturali.

Oriol Nel-lo e Paolo Castelnovi

Questo approfondimento sul turismo è parte di un più generale lavoro sul rapporto, oggi, tra città e montagna e sul ruolo che i cambiamenti culturali possono avere sui cambiamenti socioeconomici che sicuramente saranno indotti dall’abbandono di tante aree anche prossime alle città.

E’ un mondo pieno di iniziative micro, spesso individuali o di piccoli numeri, e ci sembra importante cercare di testimoniare le prove, gli esperimenti, le battaglie sostenute da mille comunità in questa transizione, spesso molto interessanti ma sempre solitarie, poco in rete, basate su entusiasmi e stoiche militanze, che quando si smorzano portano a far crollare tutto.

Quindi attivare un atlante interattivo delle attività innovative per il turismo e il popolamento dei territori meno favoriti, dove ciascuno porti la propria azione e possa confrontarsi con gli altri, soprattutto per agevolare il cambio generazionale, il superamento delle resistenze politiche e culturali più conservatrici ma anche il rifiuto delle politiche di mercato, che immediatamente squilibrano le risorse e impoveriscono il territorio. Più del turismo sociale di cui si parlava prima, che alla fine non è altro che un turismo di serie B, inserito entro lo stesso modello culturale di consumi e di servizi.

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