Il turismo come occasione per sperimentare modalità formative attraenti per i ragazzi: basate sull’esperienza diretta, sul contatto con competenze e saperi non standardizzati dai programmi scolastici. Le prime linee di un manifesto per un nuovo turismo, dove l’ospitante e l’ospitato dialoghino e si scambino esperienze, non esclusivo ma al contrario promotore di integrazione tra culture diverse, stimolante esperimenti locali e con tempi lenti, dettati dalla natura, con attenzione al racconto, alla formazione della memoria, alla capacità di gustare le emozioni fuori dai social. (articolo di Paolo Castelnovi)

Ho visto cose che voi umani…

Si insegnava latino dalla prima media. A me dodicenne il latino ha scoperchiato il gioco delle parole: nelle etimologie ho fatto viaggi da fermo simili a quelli che offrivano Salgari o Verne.

Poi, da più grande, ho scoperto che scrittori e filosofi sulle etimologie tessevano ragionamenti o addirittura inventavano fantasie seducenti per il loro discorso (Emanuele Severino, ad esempio, o Erri DeLuca). Sulla loro traccia mi piace ogni tanto accompagnare significati etimologici veri con altri inventati, fatti apposta per arrivare dove voglio. E’ un cockail di vero e di verosimile che talvolta apre improvvisi spiragli di comprensione su temi difficili o sgradevoli.

Ad esempio guardiamo cosa sta dietro una frase adatta ai nostri tempi ingrati:

considerare cattivo il nemico.

  • Considerare deriva da cum-sidera : pensare con l’aiuto delle stelle
  • Cattivo deriva da captivus: catturato, prigioniero
  • Nemico lo facciamo derivare da nemo: nessuno, non riconosciuto, privo di identità, senza volto.

Non conta che uno degli etimi sia di fantasia a fronte del gorgo negativo di senso che la frase svela:

Siamo legittimati (dalle stelle!) a tenere rinchiusi quelli che non conosciamo,

perchè sono cattivi (cioè prigionieri, ma non voglio saperlo)

e non vogliamo sapere nulla di loro, per poterli considerare nostri nemici

Era il 1970 quando Mogol regalava a Mina una poesia:

Io non ti conosco

io non so chi sei

so che hai cancellato

con un gesto i sogni miei.

Sono nata ieri

nei pensieri tuoi

eppure adesso siamo insieme…..

60 anni fa la nuova generazione si sentiva pronta a nuove prove, con la coscienza lavata dagli orrori della guerra: le canzoni di quegli anni sono un inno all’amore come avventura della conoscenza, come piacere di un dialogo inusitato, come disponibilità ad essere stupiti.

La persona sconosciuta incontrata è amabile, è buona sino a priva contraria.

Oggi, forse per la cattiva coscienza di decenni di maltrattamenti e disparità, lo sconosciuto è considerato un probabile nemico, uno cattivo sino a prova contraria.

Io vorrei esplorare non tanto la parte della frase che riguarda la diffidenza, ma la parte che riguarda la conoscenza. Perché la diffidenza prevale quando la conoscenza è debole.

E oggi, al contrario di 60 anni fa, l’interesse per la conoscenza è ai minimi storici.

Si è smesso di tenerla in conto, né come virtù civile né come risorsa per la realizzazione personale, come invece primeggiava da un paio di secoli, almeno dopo la rivoluzione francese, sino al famoso “conoscere per decidere”, da Cartesio a Einaudi posto alla base della moderna democrazia.

Noi, addetti ai mestieri culturali, siamo immersi in una salamoia di falsa coscienza da almeno un paio di generazioni. Sappiamo benissimo che la cultura è uno strumento essenziale per abitare il nostro mondo, e tolleriamo che la scuola, istituzione concepita per fornire a tutti cultura, da molti decenni sia lasciata alla buona volontà degli insegnanti, senza reali aiuti agli sforzi fortunatamente ancora diffusi per mantenerne il ruolo originario, di servizio democratico e integratore.

Sappiamo benissimo che il nodo sociale del sapere, che ne determina il valore etico positivo o negativo, sta nella sua comunicazione, ma non ci preoccupiamo della deformazione grottesca della realtà fornita da media e social, ormai dominatori assoluti rispetto ai contenuti comunicati.

L’impero dalla falsificazione, già vivace prima dell’affermarsi della AI, a breve manderà in tilt l’intero prodotto dell’era social, in cui pareva che ciascuno potesse partecipare come parte attiva, a formare la nuova cultura popolare senza regole. Era vero solo in parte, ma comunque l’insicurezza sulla comunicazione provocherà una domanda crescente di sapere certificato, di ortodossia, di autorevolezza (che poi alligna sempre malignamente come autorità e minculpop).

E così ci saremo giocati il breve evo della cultura libera (un’illusione durata un paio di decenni).

Noi addetti ai mestieri culturali intuiamo questo trend di cambiamento epocale e capiamo la sempre più urgente necessità di costruire strumenti culturali amati, o almeno non guardati con diffidenza, ma siamo lontani dall’invenzione di nuovi servizi basati sulla cultura, come quelli che hanno costituito iniezioni di vitalità nella storia dell’Occidente: dal teatro che unisce interi popoli (dell’antichità o, in lirica, del XIX secolo), alle Universitas dei comuni italiani, dai 9 anni di istruzione obbligatoria per tutti i prussiani (e prussiane) di Federico il Grande, al cinema hollywoodiano che diffonde nel mondo del secondo 900 il racconto della American Way.

In tutte quelle stagioni la cultura è riuscita a consolidare formae mentis comuni, racconti da condividere, patrimoni di memorie unificanti.

Oggi crede di far cultura chi mastica ancora i cascami di quelle invenzioni, ormai trascurati rispetto ai nuovi media molto più vitali improntati a un racconto della realtà indirizzato piuttosto alla recita del contrasto e alla solitudine identitaria, alla spettacolarizzazione del conflitto, alla soluzione immediata dei problemi con la violenza.

Eppure, se si guarda con attenzione al comportamento dei più giovani, si trovano molte tracce che indicano dove si stanno accumulando nuove domande di cultura e dove si potrebbero indirizzare competenze, ricerche e creatività dei mestieri culturali del nuovo millennio.

Ad esempio il paesaggio, categoria del patrimonio culturale aggiunta alla lista sin dalla Costituzione, ma trascurata per 50 anni, trova nel 2000 una illuminante definizione nella Convenzione europea, che considera strategico difendere il diritto non solo a mantenere le tracce fisiche delle trasformazioni fatte da uomo e natura sul territorio, ma anche a sostenere la propria percezione identitaria di quelle tracce. Si introduce l’idea che va difesa la soggettività di chi percepisce, oltre naturalmente alla oggettualità delle testimonianze fisiche.

Oggi, 25 anni dopo, è evidente che è maturata a livello di massa l’esigenza di vedere riconosciuta la propria percezione, del paesaggio e non solo, che c’è una grande domanda di esperienza diretta nelle viste e non solo, di verifica sensoriale dei valori (tutti, non solo quelli culturali).

È una inedita (e contemporaneamente arcaica) domanda di cultura che si fa avanti nella crisi dei riferimenti tradizionali: sta scomparendo la cultura locale perché scompaiono le comunità locali come melting pot culturale e perché oltre il locale ormai si sa che i media sono inaffidabili, compreso il grande media costituito dalla formazione istituzionale. E così ci si riduce a una nuova, antimoderna e imprevedibile fiducia affidata “ingenuamente” da ciascuno ai propri sensi.

Questo trend di ritorno dell’esperienza, per cui si ricominciano a mordere le monete (e le medaglie olimpiche) per capire se accettarle o meno, aumenta i suoi effetti riduzionisti se si accompagna con la difficoltà, ormai schiacciante tra i più giovani, ad affrontare la complessità (difficile capire se sia causa o effetto o solo concomitanza della domanda di esperienza diretta).

Si forma un doppio vincolo per l’accesso alla cultura (no complessità, sì solo a esperienza diretta): situazione che fa grippare tutti, e quindi, come spiega Bateson, spinge a grandi cambiamenti creativi.

In questo caso, se da una parte conduce ai deliri terrapiattisti e novax, dall’altra, per fortuna più diffusamente, chiede alla cultura di fornire le istruzioni basilari per passare dall’esperienza alla valutazione complessa, evitando, per quanto è possibile, di delegare ad altri (o ad altro) il giudizio.

Questa linea di comportamento dei giovani di buona volontà, anche se ancora timida e confusa, è comunque promettente e dovrebbe impegnarci ad offrire servizi culturali per la loro domanda di esperienza diretta e di libertà di giudizio, a dare una mano a chi cerca di evitare le trappole del rituale o dell’identitario senza autonomia (il social di cellulare o di birreria, l’ammirazione dei divi o dei leader politici, il tifo sportivo, la vacanza in comitiva…).

Ma, a fronte di questa pressione per tornare ai fondamentali, noi mestieranti della cultura rimaniamo spiazzati perché la nostra strumentazione culturale principale è o storicista, fondata due secoli fa sul racconto di eventi che non possono essere controllati con l’esperienza diretta, o scientifica, basata sulla riduzione matematica di realtà non percepibili. Quando prevale il disinteresse o prende piede il dubbio sistematico rispetto ai nostri racconti di tempi passati o descrizioni della struttura della materia, mondi senza traccia nella memoria vivente, non sappiamo più cosa fare per placare con le storie e le formule la sete di verità vivibile che è al centro delle migliori ansie giovanili.

Eppure non solo l’intuizione europea sul paesaggio, ma anche e soprattutto la mobilitazione per l’ambiente dovrebbe indurci ad una riflessione che va oltre il riscontro di una generica preferenza per l’acquisizione culturale diretta ed emozionata. Dovremmo anche riconoscere una crescente domanda di cultura spaziale, delle relazioni con i luoghi: un approccio che, a differenza della cultura storicista è ricco di godibili riscontri esperienziali e identitari, a partire da quelli elementari, dettati dal senso di protezione del proprio habitat, fino a quelli dettati dalla curiosità, per esplorare luoghi abitati da altri.

Ma sulla cultura spaziale il mestierante culturale odierno è in grande difficoltà.

Il tema dell’abitare, motore dell’esigenza di acquisire una cultura spaziale, è stato relegato tra le competenze implicite, che non si insegnano perché respirate con l’aria stessa d’Italia, come il cibo e i rapporti sociali o affettivi. E’ una leggerezza imperdonabile delle nostre istituzioni, conseguenza di una considerazione statica del mondo, che deriva dall’universo rurale, dove il criterio base era confermare equilibri da non modificare tra sé e il proprio contesto, riproponendo come ottimo sempre lo stesso rapporto con lo stesso ambiente, lo stesso tipo di persone, lo stesso tempo ciclico che si ripete.

Al contrario l’abitare contemporaneo è un puzzle di esperienze di luoghi e incontri diversi, che intuiamo preziosi per la qualità della nostra vita ma non sappiamo bene come mettere a fattor comune e che siamo continuamente tentati di tenere per noi, unico accumulo di identità che il nostro tempo ci concede.

Roy Batty, l’androide eroe di Blade Runner, che muore disperato che vadano perdute le proprie esperienze (che forse sono artificalmente innestate), è un modello per noi ma anche per le nuove generazioni, che forse affidano il proprio senso di identità non tanto al proprio sapere quanto alle proprie esperienze, e semmai alla conoscenza che solo da esse deriva.

Quindi siamo in una situazione storica molto difficile per la cultura tradizionale. Da una parte si chiedono modifiche strutturali nel processo comunicativo e un recupero dell’immagine e del senso che alla cultura attribuiscono i più giovani, vittime di un modello di comunicazione frammentaria, semplificata e poco attenta alle relazioni e alla complessità. D’altra parte è evidente il crescere di una domanda di riconquista del senso di realtà, di valorizzazione delle proprie esperienze dirette, del valore della sensibilità, tutti aspetti che certamente la cultura (in particolare nella educazione alla sensibilità artistica e alla curiosità scientifica), adeguatamente rimessa all’onor del “nuovo” mondo potrebbe soddisfare, diventando non solo la palestra e il campo di sperimentazione ma anche il “luogo comune” delle nuove generazioni per i rapporti tra sé e il proprio habitat.

In questo quadro critico degli sviluppi della nostra cultura, si propone oggi l’occasione del trend crescente di importanza attribuito al turismo, che certo chiede infrastrutture e logistica, ma anche, a nostro parere, una innovazione culturale nel modo di porgere i territori e di offrirne le risorse ai visitatori (e agli abitanti stessi).

Qualche Università percepisce la rilevanza del tema, anche in ragione di una attenzione nuova per la Terza missione (quella di divulgazione e valorizzazione, che accompagna quella formativa e quella della ricerca), che finalmente spinge l’accademia a mettere in circolo il sapere accumulato in modi adatti ad applicazioni su casi e contesti reali.

Ma ancora troppo spesso si riducono le potenzialità di questo tema, che richiede un sistematico atteggiamento sperimentale ancora mancante nelle istituzioni. Così prevale il riduzionismo e a chi vuole studiare il turismo troppo spesso ci si limita a dare contributi per nuove competenze professionalizzanti o a rimpannucciare i moduli più diversi di un sapere specialistico già insegnato (poco conta se sia sulle produzioni agricole, la storia dell’arte, l’antropologia, i servizi logistici informatici, ecc. ). La nuova domanda sociale giovanile ci propone una sfida: come assecondare e valorizzare le esperienze di chi cerca, anche ingenuamente, di abitare meglio, in una dimensione non solo locale e di godere dell’esperienza della diversità invece che temerla.

Ma anche tra gli amministratori locali domina l’improvvisazione di fronte alle prospettive di inserimento del turismo, considerato solo come fenomeno di massa indifferenziato, difficilissimo da inserire in uno sviluppo equilibrato delle economie locali. Appare sempre più chiaro che il tema è ingovernabile solo agendo dal punto di vista dell’offerta, dalle mete di visita.

Senza intervenire sulla domanda si attivano solo interventi per lo più inefficaci, anzi a rischio di peggioramento per fare fronte a dinamiche ormai incontrollabili se non con una lunga azione culturale a monte, in cui distinguere le motivazioni alla visita.

Ormai le grandi città, o le stazioni rinomate del turismo tradizionale, che godono da decenni di successi crescenti, stanno verificando gli squilibri irriducibili indotti dalle visite di massa, dall’accumularsi di genti per lo più prive di interesse per i luoghi ma motivate solo da una perversione identitaria (appartenere al gruppo di chi ha fatto la settimana a…., o ha partecipato all’evento di…. ). E’ un consumismo delle esperienze di visita che genera, come un frutto tossico, il consumo delle mete, ne altera l’economia e la godibilità, portando gli abitanti (quelli stessi che hanno vantaggio economico dall’affluenza turistica) a scendere in piazza contro l’overbooking, a invocare il numero chiuso. Accade a Barcellona come a S.Giminiano, a Venezia come a Pompei , e porta alla tentazione perversa di selezionare per censo i visitatori, di regolare l’accesso al territorio per favorire l’esperienza “esclusiva”, vendibile ad alto prezzo e apparentemente a basso impatto.

Ma anche le piccole città e il mondo rurale e montano, con i suoi borghi e i suoi paesaggi aperti e in generale le sue comunità locali indebolite dall’abbandono e dallo spopolamento, è in difficoltà a gestire una strategia corretta di rapporto con i turisti.

Per lo più i sindaci dei luoghi meno conosciuti che per anni si sono battuti per far partecipare i propri territori al banchetto (apparente) del turismo di massa, oggi cominciano a tirare i conti delle sagre e dei festival montati per mettere le piazze sotto i riflettori, anche solo per un giorno all’anno. E il risultato è unanime, son più le cartacce e le lattine da gettare che il pro economico e sociale che ne deriva.

Solo in alcuni luoghi si trova una comunità locale, anche minima, ma capace di offrire brani di vita locale e modalità di apprezzamento dei luoghi che vengono gustati senza mediazioni da visitatori ben predisposti, formanti una domanda di visita proporzionata, non aggressiva e poco consumistica ed anzi cooperante, che in modo più o meno esplicito cerca una sorta di “prova per abitare diversamente”.

Si va, solo per citare le punte degli iceberg, dai recuperi collettivi di interi villaggi alpini abbandonati alla ricostruzione condivisa dei muri a secco dei terrazzamenti, dagli esercizi linguistici di traduzione tra dialetti alle esplorazioni didattiche del paesaggio, dal soggiorno in “parchi artistici” agli itinerari sulle tracce di storie mitiche.

Analizzando queste prove virtuose, prevalentemente montane o di luoghi protetti, si traggono alcuni criteri operativi per avviare progetti stimolanti anche per la nuova domanda turistica (e di cultura), da avviare anche in assenza di una comunità locale forte e attiva, che è ormai un bene raro e diventerà nei prossimi anni introvabile.

Sono tracce che si devono assumere criticamente e reinventare in modo sperimentale nelle nuove imprese turistiche che, secondo l’ipotesi sin qui avanzata, possono diventare uno dei servizi più immediatamente attivabili per la nuova domanda culturale, una vera infrastruttura di interesse generale, libera e capace di far verificare sensorialmente gli aspetti, gli spazi e le relazioni che si ritengono importanti:

Manifesto per un “nuovo” turismo

Queste le prime linee di un manifesto per un nuovo turismo, dove l’ospitante e l’ospitato dialoghino e si scambino esperienze, non esclusivo ma al contrario promotore di integrazione tra culture diverse, stimolante esperimenti locali e con tempi lenti, dettati dalla natura, con attenzione al racconto, alla formazione della memoria, alla capacità di gustare le emozioni fuori dai social…. partecipate.. call to action

  1. Il più profondo e memorabile coinvolgimento emotivo e culturale dei visitatori si verifica quando l’ospite ricevuto diventa anche in qualche misura ospite ricevente (e non è un caso che in italiano una sola parola significhi entrambi gli attori in gioco nell’evento della visita). La distanza tra l’abitante che riceve e il visitatore che viene ricevuto deve essere il più possibile ridotta fino a poterla pensare come intercambiabile, portando il visitatore da una parte a interagire con il territorio come l’abitante, seguendone almeno un po’ le attività quotidiane e d’altra parte a dare dignità al racconto delle proprie esperienze del visitatore. Questo porterà nuovi orizzonti alla platea locale, e viceversa le esperienze locali porteranno un nuovo modo di percepire il quotidiano al visitatore. Così Ulisse ringrazia l’ospitalità di Alcinoo, il padre di Nausica, con il racconto del proprio viaggio e del proprio sapere, ma ascolta da lui la storia del suo regno. E’ una prova pratica di capacità di scambio culturale, e in una prima fase poco conta se tutto ciò è una versione semplificata delle pratiche reali o divulgativa di un sapere complesso, purché sia efficace e coinvolgente per entrambi e in particolare venga percepita come un dono reciproco, superando lo scambio ineguale a cui il capitalismo e il colonialismo ci condannano da secoli in ogni relazione tra luoghi diversi (siamo al dono del primo Baudrillard).
  1. Va invertita la logica della prestazione “esclusiva” che fa godere (forse) solo di qualche aspetto fisico del patrimonio, offrendo invece un approccio inclusivo, in cui il visitatore intercetta sistematicamente il “paesaggio attivo”, formato da chi per istituzione, volontariato o mestiere si occupa del territorio, dei suoi prodotti, delle sue memorie, della sua gestione, e che quindi può presentare aspetti dei luoghi e punti di vista del tutto diversi e inaspettati.

E’ uno dei modi più efficaci per stimolare la comprensione della complessità, che deve essere percepita come una compresenza di elementi del patrimonio e delle attività che sostanziano il territorio, che stimolano una sintesi da ricomporre come un Lego non vincolato ad un modello, in cui ciascuno può mettere insieme diversamente i pezzi di una realtà difficile da cogliere in un colpo solo. In questo senso il servizio “esclusivo” è incapace di offrire la ricchezza di quelli inclusivi e condivisi: per il visitatore è costoso e serve solo a confermare le proprie aspettative, privando l’utente del piacere della scoperta e della serendipity.

  1. L’offerta inclusiva è per definizione lenta: accade occupando tempo, che consente alle esperienze di depositarsi, dà spazio alle domande, permette le prove. Solo in questo modo gli incontri con il “paesaggio attivo” possono attivare una competenza indispensabile: la curiosità culturale, la voglia di saperne di più, seguendo la modalità di ricerca classica per esplorare la complessità, in cui la compresenza di saperi, da quelli orali a quelli specialistici esito di indagini scientifiche partecipano a delineare un’immagine, un senso complessivo dei luoghi che ciascuno deve sentirsi libero di definire con i contributi che ritiene, sapendo comunque che partecipa a un grande work in progress, aperto a nuove esplorazioni che portano a nuovo sapere.
  1. la scala dell’esplorazione deve essere in un primo tempo alla portata dei sensi e dei piccoli progetti, dato che è molto più facile condividere aspetti dei luoghi, delle attività, e dei racconti se sono proporzionati alla propria capacità di visione e di azione. Si arriva per gradi a condividere e ad essere emozionati dai paesaggi complessi e dai progetti lunghi, generalmente poco appassionanti anche se sono quelli importanti per il territorio. All’inizio il nuovo visitatore cerca aspetti in cui immedesimarsi, alla sua portata. Quindi mete privilegiate del nuovo turismo nella prima fase non sono il centro di Parigi o San Pietro ma il vigneto reimpiantato con cultivar storici ritrovati per avventura, il sentiero disastrato dall’alluvione riaperto con le corvée di tutti i volontari, la cappella restaurata con una tecnica riscoperta da un artigiano del luogo.
  1. Le modalità del racconto, e in generale la formazione della memoria dei luoghi devono essere aperte e lasciare spazio all’interazione soggettiva. Contano le immagini più delle parole, la frammentazione e l’arte del collage più dell’affresco sistematico, la sorpresa più della informazione preparatoria: si parte dalla considerazione che il nuovo turista ama nutrirsi di cultura ma vuole pincar per tapas più che scorrere un menù fisso.

Ma soprattutto occorre responsabilizzare (sia ospitante che ospitato) del racconto del luogo, anche dedicando spazio e tempo a sperimentazioni “didattiche”, in modo da legittimare anche eticamente la soggettività interpretativa che sta implicita nel rapporto tra gesto e regesto, tra esperienza e narrazione, tra emozione e razionalità.

Verificata l’impossibilità di una restituzione documentaria dei luoghi senza visione soggettiva ed emozionata, occorre rendere competenti i visitatori ad ascoltare e gli abitanti a narrare in performance di “racconto consapevole”, che evidenzia e dà senso esplicito agli aspetti interpretativi e qualifica il vissuto come spazio privilegiato di conoscenza e di giudizio non solo personali ma anche di altri, interessati a confrontare le soggettività.

Insomma l’approccio a territori sconosciuti (che sia turistico o migratorio, l’obiettivo dovrebbe essere lo stesso) attivo, locale, lento, curioso e cooperante tra ospitante e ospitato non solo è certamente fonte di sviluppo locale qualificato, ma è anche una forma di sapere inclusiva e pacificante, finalmente desiderabile e condivisibile anche dalle nuove generazioni di abitanti del pianeta.

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