Il turismo come occasione per sperimentare modalità formative attraenti per i ragazzi: basate sull’esperienza diretta, sul contatto con competenze e saperi non standardizzati dai programmi scolastici. Le prime linee di un manifesto per un nuovo turismo, dove l’ospitante e l’ospitato dialoghino e si scambino esperienze, non esclusivo ma al contrario promotore di integrazione tra culture diverse, stimolante esperimenti locali e con tempi lenti, dettati dalla natura, con attenzione al racconto, alla formazione della memoria, alla capacità di gustare le emozioni fuori dai social.

Articolo di Paolo Castelnovi | English translation at the bottom of this text.

Ho visto cose che voi umani…

Si insegnava latino dalla prima media. A me dodicenne il latino ha scoperchiato il gioco delle parole: nelle etimologie ho fatto viaggi da fermo simili a quelli che offrivano Salgari o Verne.

Poi, da più grande, ho scoperto che scrittori e filosofi sulle etimologie tessevano ragionamenti o addirittura inventavano fantasie seducenti per il loro discorso (Emanuele Severino, ad esempio, o Erri DeLuca). Sulla loro traccia mi piace ogni tanto accompagnare significati etimologici veri con altri inventati, fatti apposta per arrivare dove voglio. E’ un cockail di vero e di verosimile che talvolta apre improvvisi spiragli di comprensione su temi difficili o sgradevoli.

Ad esempio guardiamo cosa sta dietro una frase adatta ai nostri tempi ingrati:

considerare cattivo il nemico.

  • Considerare deriva da cum-sidera : pensare con l’aiuto delle stelle
  • Cattivo deriva da captivus: catturato, prigioniero
  • Nemico lo facciamo derivare da nemo: nessuno, non riconosciuto, privo di identità, senza volto.

Non conta che uno degli etimi sia di fantasia a fronte del gorgo negativo di senso che la frase svela:

Siamo legittimati (dalle stelle!) a tenere rinchiusi quelli che non conosciamo,

perchè sono cattivi (cioè prigionieri, ma non voglio saperlo)

e non vogliamo sapere nulla di loro, per poterli considerare nostri nemici

Era il 1970 quando Mogol regalava a Mina una poesia:

Io non ti conosco

io non so chi sei

so che hai cancellato

con un gesto i sogni miei.

Sono nata ieri

nei pensieri tuoi

eppure adesso siamo insieme…..

60 anni fa la nuova generazione si sentiva pronta a nuove prove, con la coscienza lavata dagli orrori della guerra: le canzoni di quegli anni sono un inno all’amore come avventura della conoscenza, come piacere di un dialogo inusitato, come disponibilità ad essere stupiti.

La persona sconosciuta incontrata è amabile, è buona sino a priva contraria.

Oggi, forse per la cattiva coscienza di decenni di maltrattamenti e disparità, lo sconosciuto è considerato un probabile nemico, uno cattivo sino a prova contraria.

Io vorrei esplorare non tanto la parte della frase che riguarda la diffidenza, ma la parte che riguarda la conoscenza. Perché la diffidenza prevale quando la conoscenza è debole.

E oggi, al contrario di 60 anni fa, l’interesse per la conoscenza è ai minimi storici.

Si è smesso di tenerla in conto, né come virtù civile né come risorsa per la realizzazione personale, come invece primeggiava da un paio di secoli, almeno dopo la rivoluzione francese, sino al famoso “conoscere per decidere”, da Cartesio a Einaudi posto alla base della moderna democrazia.

Noi, addetti ai mestieri culturali, siamo immersi in una salamoia di falsa coscienza da almeno un paio di generazioni. Sappiamo benissimo che la cultura è uno strumento essenziale per abitare il nostro mondo, e tolleriamo che la scuola, istituzione concepita per fornire a tutti cultura, da molti decenni sia lasciata alla buona volontà degli insegnanti, senza reali aiuti agli sforzi fortunatamente ancora diffusi per mantenerne il ruolo originario, di servizio democratico e integratore.

Sappiamo benissimo che il nodo sociale del sapere, che ne determina il valore etico positivo o negativo, sta nella sua comunicazione, ma non ci preoccupiamo della deformazione grottesca della realtà fornita da media e social, ormai dominatori assoluti rispetto ai contenuti comunicati.

L’impero dalla falsificazione, già vivace prima dell’affermarsi della AI, a breve manderà in tilt l’intero prodotto dell’era social, in cui pareva che ciascuno potesse partecipare come parte attiva, a formare la nuova cultura popolare senza regole. Era vero solo in parte, ma comunque l’insicurezza sulla comunicazione provocherà una domanda crescente di sapere certificato, di ortodossia, di autorevolezza (che poi alligna sempre malignamente come autorità e minculpop).

E così ci saremo giocati il breve evo della cultura libera (un’illusione durata un paio di decenni).

Noi addetti ai mestieri culturali intuiamo questo trend di cambiamento epocale e capiamo la sempre più urgente necessità di costruire strumenti culturali amati, o almeno non guardati con diffidenza, ma siamo lontani dall’invenzione di nuovi servizi basati sulla cultura, come quelli che hanno costituito iniezioni di vitalità nella storia dell’Occidente: dal teatro che unisce interi popoli (dell’antichità o, in lirica, del XIX secolo), alle Universitas dei comuni italiani, dai 9 anni di istruzione obbligatoria per tutti i prussiani (e prussiane) di Federico il Grande, al cinema hollywoodiano che diffonde nel mondo del secondo 900 il racconto della American Way.

In tutte quelle stagioni la cultura è riuscita a consolidare formae mentis comuni, racconti da condividere, patrimoni di memorie unificanti.

Oggi crede di far cultura chi mastica ancora i cascami di quelle invenzioni, ormai trascurati rispetto ai nuovi media molto più vitali improntati a un racconto della realtà indirizzato piuttosto alla recita del contrasto e alla solitudine identitaria, alla spettacolarizzazione del conflitto, alla soluzione immediata dei problemi con la violenza.

Eppure, se si guarda con attenzione al comportamento dei più giovani, si trovano molte tracce che indicano dove si stanno accumulando nuove domande di cultura e dove si potrebbero indirizzare competenze, ricerche e creatività dei mestieri culturali del nuovo millennio.

Ad esempio il paesaggio, categoria del patrimonio culturale aggiunta alla lista sin dalla Costituzione, ma trascurata per 50 anni, trova nel 2000 una illuminante definizione nella Convenzione europea, che considera strategico difendere il diritto non solo a mantenere le tracce fisiche delle trasformazioni fatte da uomo e natura sul territorio, ma anche a sostenere la propria percezione identitaria di quelle tracce. Si introduce l’idea che va difesa la soggettività di chi percepisce, oltre naturalmente alla oggettualità delle testimonianze fisiche.

Oggi, 25 anni dopo, è evidente che è maturata a livello di massa l’esigenza di vedere riconosciuta la propria percezione, del paesaggio e non solo, che c’è una grande domanda di esperienza diretta nelle viste e non solo, di verifica sensoriale dei valori (tutti, non solo quelli culturali).

È una inedita (e contemporaneamente arcaica) domanda di cultura che si fa avanti nella crisi dei riferimenti tradizionali: sta scomparendo la cultura locale perché scompaiono le comunità locali come melting pot culturale e perché oltre il locale ormai si sa che i media sono inaffidabili, compreso il grande media costituito dalla formazione istituzionale. E così ci si riduce a una nuova, antimoderna e imprevedibile fiducia affidata “ingenuamente” da ciascuno ai propri sensi.

Questo trend di ritorno dell’esperienza, per cui si ricominciano a mordere le monete (e le medaglie olimpiche) per capire se accettarle o meno, aumenta i suoi effetti riduzionisti se si accompagna con la difficoltà, ormai schiacciante tra i più giovani, ad affrontare la complessità (difficile capire se sia causa o effetto o solo concomitanza della domanda di esperienza diretta).

Si forma un doppio vincolo per l’accesso alla cultura (no complessità, sì solo a esperienza diretta): situazione che fa grippare tutti, e quindi, come spiega Bateson, spinge a grandi cambiamenti creativi.

In questo caso, se da una parte conduce ai deliri terrapiattisti e novax, dall’altra, per fortuna più diffusamente, chiede alla cultura di fornire le istruzioni basilari per passare dall’esperienza alla valutazione complessa, evitando, per quanto è possibile, di delegare ad altri (o ad altro) il giudizio.

Questa linea di comportamento dei giovani di buona volontà, anche se ancora timida e confusa, è comunque promettente e dovrebbe impegnarci ad offrire servizi culturali per la loro domanda di esperienza diretta e di libertà di giudizio, a dare una mano a chi cerca di evitare le trappole del rituale o dell’identitario senza autonomia (il social di cellulare o di birreria, l’ammirazione dei divi o dei leader politici, il tifo sportivo, la vacanza in comitiva…).

Ma, a fronte di questa pressione per tornare ai fondamentali, noi mestieranti della cultura rimaniamo spiazzati perché la nostra strumentazione culturale principale è o storicista, fondata due secoli fa sul racconto di eventi che non possono essere controllati con l’esperienza diretta, o scientifica, basata sulla riduzione matematica di realtà non percepibili. Quando prevale il disinteresse o prende piede il dubbio sistematico rispetto ai nostri racconti di tempi passati o descrizioni della struttura della materia, mondi senza traccia nella memoria vivente, non sappiamo più cosa fare per placare con le storie e le formule la sete di verità vivibile che è al centro delle migliori ansie giovanili.

Eppure non solo l’intuizione europea sul paesaggio, ma anche e soprattutto la mobilitazione per l’ambiente dovrebbe indurci ad una riflessione che va oltre il riscontro di una generica preferenza per l’acquisizione culturale diretta ed emozionata. Dovremmo anche riconoscere una crescente domanda di cultura spaziale, delle relazioni con i luoghi: un approccio che, a differenza della cultura storicista è ricco di godibili riscontri esperienziali e identitari, a partire da quelli elementari, dettati dal senso di protezione del proprio habitat, fino a quelli dettati dalla curiosità, per esplorare luoghi abitati da altri.

Ma sulla cultura spaziale il mestierante culturale odierno è in grande difficoltà.

Il tema dell’abitare, motore dell’esigenza di acquisire una cultura spaziale, è stato relegato tra le competenze implicite, che non si insegnano perché respirate con l’aria stessa d’Italia, come il cibo e i rapporti sociali o affettivi. E’ una leggerezza imperdonabile delle nostre istituzioni, conseguenza di una considerazione statica del mondo, che deriva dall’universo rurale, dove il criterio base era confermare equilibri da non modificare tra sé e il proprio contesto, riproponendo come ottimo sempre lo stesso rapporto con lo stesso ambiente, lo stesso tipo di persone, lo stesso tempo ciclico che si ripete.

Al contrario l’abitare contemporaneo è un puzzle di esperienze di luoghi e incontri diversi, che intuiamo preziosi per la qualità della nostra vita ma non sappiamo bene come mettere a fattor comune e che siamo continuamente tentati di tenere per noi, unico accumulo di identità che il nostro tempo ci concede.

Roy Batty, l’androide eroe di Blade Runner, che muore disperato che vadano perdute le proprie esperienze (che forse sono artificalmente innestate), è un modello per noi ma anche per le nuove generazioni, che forse affidano il proprio senso di identità non tanto al proprio sapere quanto alle proprie esperienze, e semmai alla conoscenza che solo da esse deriva.

Quindi siamo in una situazione storica molto difficile per la cultura tradizionale. Da una parte si chiedono modifiche strutturali nel processo comunicativo e un recupero dell’immagine e del senso che alla cultura attribuiscono i più giovani, vittime di un modello di comunicazione frammentaria, semplificata e poco attenta alle relazioni e alla complessità. D’altra parte è evidente il crescere di una domanda di riconquista del senso di realtà, di valorizzazione delle proprie esperienze dirette, del valore della sensibilità, tutti aspetti che certamente la cultura (in particolare nella educazione alla sensibilità artistica e alla curiosità scientifica), adeguatamente rimessa all’onor del “nuovo” mondo potrebbe soddisfare, diventando non solo la palestra e il campo di sperimentazione ma anche il “luogo comune” delle nuove generazioni per i rapporti tra sé e il proprio habitat.

In questo quadro critico degli sviluppi della nostra cultura, si propone oggi l’occasione del trend crescente di importanza attribuito al turismo, che certo chiede infrastrutture e logistica, ma anche, a nostro parere, una innovazione culturale nel modo di porgere i territori e di offrirne le risorse ai visitatori (e agli abitanti stessi).

Qualche Università percepisce la rilevanza del tema, anche in ragione di una attenzione nuova per la Terza missione (quella di divulgazione e valorizzazione, che accompagna quella formativa e quella della ricerca), che finalmente spinge l’accademia a mettere in circolo il sapere accumulato in modi adatti ad applicazioni su casi e contesti reali.

Ma ancora troppo spesso si riducono le potenzialità di questo tema, che richiede un sistematico atteggiamento sperimentale ancora mancante nelle istituzioni. Così prevale il riduzionismo e a chi vuole studiare il turismo troppo spesso ci si limita a dare contributi per nuove competenze professionalizzanti o a rimpannucciare i moduli più diversi di un sapere specialistico già insegnato (poco conta se sia sulle produzioni agricole, la storia dell’arte, l’antropologia, i servizi logistici informatici, ecc. ). La nuova domanda sociale giovanile ci propone una sfida: come assecondare e valorizzare le esperienze di chi cerca, anche ingenuamente, di abitare meglio, in una dimensione non solo locale e di godere dell’esperienza della diversità invece che temerla.

Ma anche tra gli amministratori locali domina l’improvvisazione di fronte alle prospettive di inserimento del turismo, considerato solo come fenomeno di massa indifferenziato, difficilissimo da inserire in uno sviluppo equilibrato delle economie locali. Appare sempre più chiaro che il tema è ingovernabile solo agendo dal punto di vista dell’offerta, dalle mete di visita.

Senza intervenire sulla domanda si attivano solo interventi per lo più inefficaci, anzi a rischio di peggioramento per fare fronte a dinamiche ormai incontrollabili se non con una lunga azione culturale a monte, in cui distinguere le motivazioni alla visita.

Ormai le grandi città, o le stazioni rinomate del turismo tradizionale, che godono da decenni di successi crescenti, stanno verificando gli squilibri irriducibili indotti dalle visite di massa, dall’accumularsi di genti per lo più prive di interesse per i luoghi ma motivate solo da una perversione identitaria (appartenere al gruppo di chi ha fatto la settimana a…., o ha partecipato all’evento di…. ). E’ un consumismo delle esperienze di visita che genera, come un frutto tossico, il consumo delle mete, ne altera l’economia e la godibilità, portando gli abitanti (quelli stessi che hanno vantaggio economico dall’affluenza turistica) a scendere in piazza contro l’overbooking, a invocare il numero chiuso. Accade a Barcellona come a S.Giminiano, a Venezia come a Pompei , e porta alla tentazione perversa di selezionare per censo i visitatori, di regolare l’accesso al territorio per favorire l’esperienza “esclusiva”, vendibile ad alto prezzo e apparentemente a basso impatto.

Ma anche le piccole città e il mondo rurale e montano, con i suoi borghi e i suoi paesaggi aperti e in generale le sue comunità locali indebolite dall’abbandono e dallo spopolamento, è in difficoltà a gestire una strategia corretta di rapporto con i turisti.

Per lo più i sindaci dei luoghi meno conosciuti che per anni si sono battuti per far partecipare i propri territori al banchetto (apparente) del turismo di massa, oggi cominciano a tirare i conti delle sagre e dei festival montati per mettere le piazze sotto i riflettori, anche solo per un giorno all’anno. E il risultato è unanime, son più le cartacce e le lattine da gettare che il pro economico e sociale che ne deriva.

Solo in alcuni luoghi si trova una comunità locale, anche minima, ma capace di offrire brani di vita locale e modalità di apprezzamento dei luoghi che vengono gustati senza mediazioni da visitatori ben predisposti, formanti una domanda di visita proporzionata, non aggressiva e poco consumistica ed anzi cooperante, che in modo più o meno esplicito cerca una sorta di “prova per abitare diversamente”.

Si va, solo per citare le punte degli iceberg, dai recuperi collettivi di interi villaggi alpini abbandonati alla ricostruzione condivisa dei muri a secco dei terrazzamenti, dagli esercizi linguistici di traduzione tra dialetti alle esplorazioni didattiche del paesaggio, dal soggiorno in “parchi artistici” agli itinerari sulle tracce di storie mitiche.

Analizzando queste prove virtuose, prevalentemente montane o di luoghi protetti, si traggono alcuni criteri operativi per avviare progetti stimolanti anche per la nuova domanda turistica (e di cultura), da avviare anche in assenza di una comunità locale forte e attiva, che è ormai un bene raro e diventerà nei prossimi anni introvabile.

Sono tracce che si devono assumere criticamente e reinventare in modo sperimentale nelle nuove imprese turistiche che, secondo l’ipotesi sin qui avanzata, possono diventare uno dei servizi più immediatamente attivabili per la nuova domanda culturale, una vera infrastruttura di interesse generale, libera e capace di far verificare sensorialmente gli aspetti, gli spazi e le relazioni che si ritengono importanti:

Manifesto per un “nuovo” turismo

Queste le prime linee di un manifesto per un nuovo turismo, dove l’ospitante e l’ospitato dialoghino e si scambino esperienze, non esclusivo ma al contrario promotore di integrazione tra culture diverse, stimolante esperimenti locali e con tempi lenti, dettati dalla natura, con attenzione al racconto, alla formazione della memoria, alla capacità di gustare le emozioni fuori dai social…. partecipate.. call to action

  1. Il più profondo e memorabile coinvolgimento emotivo e culturale dei visitatori si verifica quando l’ospite ricevuto diventa anche in qualche misura ospite ricevente (e non è un caso che in italiano una sola parola significhi entrambi gli attori in gioco nell’evento della visita). La distanza tra l’abitante che riceve e il visitatore che viene ricevuto deve essere il più possibile ridotta fino a poterla pensare come intercambiabile, portando il visitatore da una parte a interagire con il territorio come l’abitante, seguendone almeno un po’ le attività quotidiane e d’altra parte a dare dignità al racconto delle proprie esperienze del visitatore. Questo porterà nuovi orizzonti alla platea locale, e viceversa le esperienze locali porteranno un nuovo modo di percepire il quotidiano al visitatore. Così Ulisse ringrazia l’ospitalità di Alcinoo, il padre di Nausica, con il racconto del proprio viaggio e del proprio sapere, ma ascolta da lui la storia del suo regno. E’ una prova pratica di capacità di scambio culturale, e in una prima fase poco conta se tutto ciò è una versione semplificata delle pratiche reali o divulgativa di un sapere complesso, purché sia efficace e coinvolgente per entrambi e in particolare venga percepita come un dono reciproco, superando lo scambio ineguale a cui il capitalismo e il colonialismo ci condannano da secoli in ogni relazione tra luoghi diversi (siamo al dono del primo Baudrillard).
  1. Va invertita la logica della prestazione “esclusiva” che fa godere (forse) solo di qualche aspetto fisico del patrimonio, offrendo invece un approccio inclusivo, in cui il visitatore intercetta sistematicamente il “paesaggio attivo”, formato da chi per istituzione, volontariato o mestiere si occupa del territorio, dei suoi prodotti, delle sue memorie, della sua gestione, e che quindi può presentare aspetti dei luoghi e punti di vista del tutto diversi e inaspettati.

E’ uno dei modi più efficaci per stimolare la comprensione della complessità, che deve essere percepita come una compresenza di elementi del patrimonio e delle attività che sostanziano il territorio, che stimolano una sintesi da ricomporre come un Lego non vincolato ad un modello, in cui ciascuno può mettere insieme diversamente i pezzi di una realtà difficile da cogliere in un colpo solo. In questo senso il servizio “esclusivo” è incapace di offrire la ricchezza di quelli inclusivi e condivisi: per il visitatore è costoso e serve solo a confermare le proprie aspettative, privando l’utente del piacere della scoperta e della serendipity.

  1. L’offerta inclusiva è per definizione lenta: accade occupando tempo, che consente alle esperienze di depositarsi, dà spazio alle domande, permette le prove. Solo in questo modo gli incontri con il “paesaggio attivo” possono attivare una competenza indispensabile: la curiosità culturale, la voglia di saperne di più, seguendo la modalità di ricerca classica per esplorare la complessità, in cui la compresenza di saperi, da quelli orali a quelli specialistici esito di indagini scientifiche partecipano a delineare un’immagine, un senso complessivo dei luoghi che ciascuno deve sentirsi libero di definire con i contributi che ritiene, sapendo comunque che partecipa a un grande work in progress, aperto a nuove esplorazioni che portano a nuovo sapere.
  1. la scala dell’esplorazione deve essere in un primo tempo alla portata dei sensi e dei piccoli progetti, dato che è molto più facile condividere aspetti dei luoghi, delle attività, e dei racconti se sono proporzionati alla propria capacità di visione e di azione. Si arriva per gradi a condividere e ad essere emozionati dai paesaggi complessi e dai progetti lunghi, generalmente poco appassionanti anche se sono quelli importanti per il territorio. All’inizio il nuovo visitatore cerca aspetti in cui immedesimarsi, alla sua portata. Quindi mete privilegiate del nuovo turismo nella prima fase non sono il centro di Parigi o San Pietro ma il vigneto reimpiantato con cultivar storici ritrovati per avventura, il sentiero disastrato dall’alluvione riaperto con le corvée di tutti i volontari, la cappella restaurata con una tecnica riscoperta da un artigiano del luogo.
  1. Le modalità del racconto, e in generale la formazione della memoria dei luoghi devono essere aperte e lasciare spazio all’interazione soggettiva. Contano le immagini più delle parole, la frammentazione e l’arte del collage più dell’affresco sistematico, la sorpresa più della informazione preparatoria: si parte dalla considerazione che il nuovo turista ama nutrirsi di cultura ma vuole pincar per tapas più che scorrere un menù fisso.

Ma soprattutto occorre responsabilizzare (sia ospitante che ospitato) del racconto del luogo, anche dedicando spazio e tempo a sperimentazioni “didattiche”, in modo da legittimare anche eticamente la soggettività interpretativa che sta implicita nel rapporto tra gesto e regesto, tra esperienza e narrazione, tra emozione e razionalità.

Verificata l’impossibilità di una restituzione documentaria dei luoghi senza visione soggettiva ed emozionata, occorre rendere competenti i visitatori ad ascoltare e gli abitanti a narrare in performance di “racconto consapevole”, che evidenzia e dà senso esplicito agli aspetti interpretativi e qualifica il vissuto come spazio privilegiato di conoscenza e di giudizio non solo personali ma anche di altri, interessati a confrontare le soggettività.

Insomma l’approccio a territori sconosciuti (che sia turistico o migratorio, l’obiettivo dovrebbe essere lo stesso) attivo, locale, lento, curioso e cooperante tra ospitante e ospitato non solo è certamente fonte di sviluppo locale qualificato, ma è anche una forma di sapere inclusiva e pacificante, finalmente desiderabile e condivisibile anche dalle nuove generazioni di abitanti del pianeta.

English version:

Tourism as a (wide field) “new alliance” of new cultural services

Tourism as an opportunity to experiment with attractive educational methods for young people, based on direct experience and contact with non-standardized skills and knowledge, beyond traditional school programs. These are the first lines of a manifesto for a new kind of tourism, where host and guest dialogue and share experiences. It is not exclusive; rather, it promotes integration between different cultures, encouraging local initiatives at a slow pace, in harmony with nature. This approach emphasizes storytelling, the creation of memories, and the ability to fully enjoy emotions outside the realm of social media.(article by Paolo Castelnovi)

I’ve seen things you people wouldn’t believe…

Latin started to be studied from the sixth grade. For me, as a 12-year-old, Latin revealed the hidden game of words. Through etymologies I embarked on imaginary journeys, similar to those that Emilio Salgari or Jules Verne’s worlds gave to me.

Later, growing up, I discovered that philosophers and writers built reflections around etymologies, or elaborated fascinating fictions to enrich their discourses (Emanuele Severino, for example, or Erri DeLuca). Following their example, I sometimes enjoy juxtaposing authentic etymological meanings with invented ones, specifically created to lead the discourse in the chosen direction. It is a cocktail of truth and truthfulness that sometimes opens up unexpected glimpses of understanding on complex or uncomfortable topics.

For example, let’s have a look at what lies behind a “common” sentence that is very appropriate for our difficult times:

«to consider the enemy evil»

  • To consider comes from cum-sidera: to think with the help of the stars
  • Evil comes from captivus: captured, prisoner
  • Enemy comes from nemo: no one, unknown, without identity, faceless.

It does not matter if one of the etymologies is invented when faced with the negative vortex of meaning that the phrase reveals:

We are allowed (by the stars!) to lock up those we do not know,

because they are evil (or prisoners, but don’t want to know that),

and we don’t want to know anything about them, so we can still consider them our enemies.

It was 1970 when the Italian songwriter Mogol gave a poem to the singer Mina:

Io non ti conosco io non so chi sei so che hai cancellato con un gesto i sogni miei. Sono nata ieri nei pensieri tuoi eppure adesso siamo insieme…(our translation) I don’t know you I don’t know who you are I know you erased my dreams with a gesture I was born yesterday in your thoughts But now we are together…

Sixty years ago, the “new generation” felt ready to face new challenges, with a consciousness that was purified by the horrors of the II World War. The songs of that period celebrate love as an adventure of discovery, a pleasure in an unusual dialogue and a willingness to be surprised.

The unknown person, the stranger, is lovable, and good, until proven otherwise. Today, perhaps due to the bad conscience that has been built up over decades of mistreatment and inequalities, the stranger is seen as a possible enemy, a bad person until proven otherwise.

I would like to explore the part of the sentence above about knowledge and not that about mistrust, because mistrust prevails when knowledge is weak.

And today, unlike 60 years ago, interest in knowledge is at its lowest level.

Knowledge stopped to be considered either as a civic virtue or as a resource for personal fulfilment, unlike in the last two centuries, at least after the French Revolution, until the well-known belief of ‘knowing to choose’, which from Descartes to the publisher Giulio Einaudi laid the foundations of modern democracy.

Those who work in a cultural profession like us, have been dipped in a brine of false consciousness for at least a couple of generations. We are fully aware that culture is an essential tool for living the world. And we recognise that school – an institution meant to provide culture for everyone – has, for many decades, been left to the willingness of teachers, with no real support for the efforts. Thankfully their commitment to preserving the school’s original role as a democratic and integrative service is still widespread. We fully realise that the ethical value, positive or negative, of knowledge lies in its communication, but we do not worry about the grotesque, weird, distortion of reality proposed by media and social media, which now dominate the contents.

The “Empire of Fake”, which was already lively before the affirmation of Artificial Intelligence, will soon crash the entire product of the social media era, where it seemed that everyone could take an active part in creating a new, rule-free, popular culture. This was only partly true, but insecurity (about authors, about truth etc.) related to communication will generate an ever-increasing demand for certified knowledge, orthodoxy and authoritativeness, which tends to subtly manifest itself as authority and propaganda.

And so, we will have lost the brief period of free culture – an illusion that lasted only a couple of decades.

As cultural professionals, we recognise this trend of epochal change and realise the growing need to create cultural tools that are appreciated – or at least not looked upon with suspicion. However, we are still very far from the creation of new cultural services, similar to those that have represented a real boost of vitality in the Western history: from ancient theatre, which brought together entire communities, to the 19th century opera, from the Universitas of the Italian municipalities, to the nine years of mandatory education for all Prussian citizens, introduced by Frederick the Great, to the Hollywood cinema of the second half of the 20th century, which globally spread the myth of the American Way of Life.

In each of those eras, culture succeeded in consolidating common formae mentis, stories to be shared, unifying legacies of memories.

Today, those who still cling to the fragments of those old inventions now cast aside compared to the new media, which are definitely more dynamic, but oriented to narratives that emphasise conflict and identity isolation, spectacularise the conflict and propose violence as an instant solution to problems, are convinced that they are creating culture.

However, looking closely at the younger generations’ behaviour, several signs emerge, revealing where new cultural needs are developing. It is exactly in these areas that skills, research and the creativity of the cultural professions of the new millennium could be addressed.

For example, the landscape, a category of cultural heritage included in the Italian Constitution but ignored for 50 years, found an enlightening definition in the European Landscape Convention in 2000. This Convention considers strategic to defend not only the right to preserve the physical traces of the transformations made by humans and nature on the territory, but also to support the identity perception that communities have of those traces. This introduces the idea that not only the physical evidence should be preserved, but also the subjectivity of those who perceive them, recognising the importance of the connection between the landscape and the personal and collective identity of those who experience it.

Today, 25 years later, it is clear that the need for the recognition of one’s own perception has massively emerged, not only in relation to the landscape but in many other areas. There is a growing demand for “direct experience”, not only visual, and sensory verification of values, whether cultural or of a different kind.

It is a new and at the same time archaic request for culture the one that emerges in the crisis of traditional references. Local culture is fading away because local communities are disappearing as crucibles of cultural exchange, and apart from these, the media, including the great medium represented by institutional education, are now perceived as unreliable. This leads to a new, anti-modern and unpredictable trust ‘naively’ entrusted to its own senses.

This return-to-experience trend, which leads to biting Olympic medals and coins to check their authenticity, amplifies its reductionist effects, especially in a context where younger people show an increasing difficulty in dealing with complexity.

This creates a “double bind” for the access to the culture (no complexity, only direct experience): this situation creates a kind of collective stalemate and, as Gregory Bateson explains, can lead to major creative changes.

In this context, while on one hand one can witness the ravings of the flat-earther and “anti-vax” groups, on the other hand, thankfully more prevalent, there is a request for culture to provide the fundamental instructions for moving from experience to complex evaluation. This implies, as far as possible, avoiding delegating to others or to external instruments the task of judging.

This attitude of goodwill young people, although shy and confused, is still promising and invites us to commit ourselves to offer cultural services that meet their demand for direct experience and freedom of judgement. It is crucial to support those who try to avoid the traps of self-referential ritual or “tribal” identity without autonomy like social dynamics on mobile phones or in bars, admiration for celebrities or political leaders, sports cheering and group holidays.

However, faced with this pressure to get back to basics, we – cultural professionals – find ourselves displaced, since our main cultural instrumentation is either historicist, based on the narration of events that cannot be verified through direct experience, or scientific method, based on the mathematical reduction of unperceivable realities. When disinterest or systematic doubt prevail in our stories of past times or descriptions of the structure of matter, worlds without traces in living memory, we find it difficult to understand how to appease – through stories and formulas – the thirst for a liveable truth that characterises the most genuine aspirations of young people.

However, not only the European intuition on landscape, but also, and above all, the mobilisation for the environment, should push us to a reflection that goes beyond the simple finding of a generic preference for a direct and emotional cultural acquisition. We should also recognise a growing request for spatial culture, for relations with places: an approach that, unlike historicist culture, offers a wide range of experiential and identity feedback, starting from the fundamental ones related to the sense of protection of one’s own habitat, to those fuelled by curiosity to explore places inhabited by others.

But today’s culture professional is in great difficulty facing space culture.

The subject of living, which is the driving force behind the need to acquire a spatial culture, has been confined within the implicit skills, those that are not explicitly taught because they are naturally acquired, like food and social or affective relations, through the air we breathe in Italy. It is an unforgivable slight by our institutions, the result of a static vision of the world, rooted in the rural world, where the fundamental criterion was to maintain the balance between the individual and the environment. This mindset proposed as an ideal the same relationship with the environment, with the same people and with the time cycle constantly repeating itself.

On the contrary, contemporary living is presented as a puzzle of experiences, characterised by different places and meetings, which we recognise as precious for the quality of our lives. However, we do not exactly know how to share these experiences, and we are constantly tempted to keep them to ourselves, as they represent the only accumulation of identity that our time allows us.

Roy Batty, the android protagonist of Blade Runner, who desperately dies fearing the loss of his experiences – even though they may be artificially grafted – represents a model not only for us, but also for the new generations who might entrust their sense of identity not to the accumulated knowledge, but to the lived experiences, and the knowledge that can come from them.

Therefore, we are in a very complex historical situation for traditional culture. On one hand, there is a need to make structural changes to the communication process and to recover the image and meaning that young people give to the culture, who are victims of a fragmentary, simplified model of communication that pays little attention to relationships and complexity. On the other hand, it is clear that there is a growing demand for regaining a sense of reality, for valuing direct experiences and the importance of sensibility. All these aspects could certainly be satisfied by culture-particularly through the education of artistic sensibility and scientific curiosity, if properly renewed to adapt to the ‘new’ world. In this way, culture could become not only a gym and a field of experimentation, but also a ‘commonplace’ for new generations, making it easier the relationship between the individual and the habitat.

In this critical context of developments of our culture, there is now an opportunity offered by the growing interest in tourism. This phenomenon certainly requires investment in infrastructures and logistics but, in our opinion, it also implies a necessary cultural innovation in the way territories are presented, and their resources are offered both to the visitors (and to the inhabitants as well).

Some universities recognise the importance of this topic, also thanks to a new focus on the Third Mission – that dedicated to disclosure and valorisation – which supports the educational and research missions. This finally pushes the academy to spread the accumulated knowledge in appropriate ways, making it available to real cases and contexts.

The potential of this topic, which needs a systematic experimental attitude, currently absent in the institutions, is still too often reduced. In this way, reductionism prevails, and those who wish to study tourism are frequently only given the opportunity to acquire new professional skills or to reorganise modules of already existing specialised knowledge. It does not matter if these relate to agricultural production, art history, anthropology, IT logistics services, and so on. The new social demand of young people poses a challenge to us: how to support and enhance the experiences of those who, even in a naive way, try to live better, not only in a local dimension but also by enjoying the experience of diversity instead of fearing it.

However, even among local administrators, improvisation prevails concerning the prospects for the integration of tourism, often seen as an undifferentiated mass phenomenon. This vision makes it very difficult to promote a balanced development of local economies. It is increasingly evident that this topic cannot be simply governed by acting from the perspective of supply, limiting to define the destinations.

Without an intervention on the demand side, there is a risk of only ineffective interventions, which could even worsen the situation trying to deal with dynamics that are now uncontrollable. It is essential to start a preliminary cultural action, able to distinguish and understand the different reasons that drive visitors.

Now, big cities and popular tourist destinations, which have been enjoying a growing success for decades, are now facing profound imbalances due to mass tourism. The influx of visitors, who often have little interest in the culture or history of places, is mainly motivated by the desire to conform to a kind of ‘identity fashion’, like being part of those who can say they spent a week in a particular location or took part in an exclusive event. This type of experiential consumerism, related to mass tourism, ends up ‘consuming’ the destinations, altering their economy and compromising their usability. The result is that even the locals, who benefit economically from the influx of tourists, take to the streets to protest against the overcrowding and call for the introduction of a limited number of visitors. This happens in Barcelona as much as in San Gimignano, in Venice as much as in Pompeii, and creates the perverse temptation to select visitors by their wealth. In this way, there is an attempt to control the access to the places in order to promote an ‘exclusive’ experience, sold for a high price and perceived as low impact, but accessible only to few.

Even small towns, as well as rural and mountain areas with their villages and unspoilt landscapes, are struggling to manage a balanced relationship with tourism. These local communities, already weakened by abandonment and depopulation, struggle to develop effective strategies to welcome visitors without further compromising their social and environmental fabric.

Many mayors of less known places, who struggled for years to ensure that their territories could take part in the (apparent) ‘banquet’ of mass tourism, are now beginning to reckon with the results of festivals and fairs organised in order to bring attention to their squares, even for just one day a year. The result is unanimous: there are more wastepaper and cans to be thrown away than the economic and social benefits.

Only in few places a local community, even a small one, capable of offering authentic pieces of everyday life and ways of appreciating places that sensitive visitors can experience unfiltered, can be found. These tourists, moved by a respectful and non-consumptive curiosity, represent a balanced and collaborative demand for tourism. More or less consciously, they are looking for an experience that will bring them closer to a form of ‘living differently’, far from the models of mass tourism.

To give a few representative examples, these include the collective recovery of entire abandoned alpine villages, the collaborative reconstruction of dry-stone walls on terraces, and activities like dialect translation exercises, educational explorations of the landscape, stays in ‘art parks’ and theme paths on the trail of mythical stories.

The analysis of these virtuous experiences, often located in mountain contexts or in protected areas, makes it possible to identify some operational criteria for developing innovative projects able to respond to the new tourism and cultural demand. These initiatives can be launched even without a strong and active local community, an increasingly rare resource that will become even harder to find in the following years.

These traces need to be critically taken up and experimentally reinvented in the new tourism enterprises, which, according to the hypothesis presented until now, can represent one of the most easily activatable services to satisfy the new cultural demand. They can become a true infrastructure of collective interest, accessible and capable of offering a sensory experience of aspects, spaces and relationships that are considered meaningful.

Manifesto for a ‘new’ tourism

These represent the first lines of a manifesto for a new tourism, where the host and guest can dialogue and share experiences. A non-exclusive tourism, but rather a promoter of integration between different cultures, encouraging local experiments and slow rhythms inspired by nature, that pays attention to storytelling, memory formation and the ability to appreciate the emotions outside social media, encouraging active participation and acting as a call to action.

  1. The most deep and emotional and cultural involvement of visitors occurs when the guest, in turn, becomes in some way also a receiver (it is not a coincidence that in Italian there is only one word for both roles involved in the event of the visit). The distance between the host and the visitor must be reduced to the minimum, to the point of becoming almost interchangeable. This allows the visitor to interact with the territory as a resident would, following at least part of the daily activities, and at the same time, gives dignity to the visitor’s experience narration. This will open up new horizons for the local community, while local experiences will offer visitors a new way of perceiving everyday life. In this way, Ulysses thanks the hospitality of Alcinoo, Nausica’s father, by sharing the story of his journey and his knowledge, while listening to the stories of his kingdom. It is a practical experience of cultural exchange, where, initially, it does not matter much if what takes place is a simplified version of authentic practices or a dissemination of complex knowledge. What is important is that it is effective and engaging for both sides, perceived as a reciprocal gift, overcoming the unequal dynamics imposed by capitalism and colonialism, which have affected relationships between different places for centuries (we are referring to Baudrillard’s idea of gift).
  2. It is necessary to overturn the logic of ‘exclusive’ performance, which only allows the appreciation of some physical aspects of the heritage, and instead adopt an inclusive approach. This should allow the visitor to systematically get in touch with the ‘active landscape’, made up by those who, for institutional, voluntary or professional reasons, take care of the territory, its products, its memories and its management. In this way, it will be possible to present completely different and unexpected aspects and points of view of the places.

It is one of the most effective ways to promote the understanding of complexity, which has to be seen as a co-presence of heritage items and activities that support the territory. This approach encourages a synthesis to be reassembled like a Lego, without following a rigid model, allowing everyone to assemble the pieces of a reality that is difficult to grab at one stroke. In this sense, the ‘exclusive’ service fails to offer the same richness as the inclusive and shared ones: for the visitor, it is expensive and only helps to confirm their expectations, robbing the user of the pleasure of discovery and serendipity.

  1. Inclusive supply is slow by definition: it takes time, which allows experiences to settle, gives space to questions and allows for trials. Only in this way meetings with the ‘active landscape’ can activate a fundamental competence: cultural curiosity, which means the desire to deepen, following the classical research method to explore complexity. In this context, the coexistence of knowledge, ranging from the oral to the specialised ones derived from scientific investigations, contributes to outlining an overall image and meaning of the places. Everyone should feel free to define this image according to their own contributions, aware of participating in a great work in progress, open to new explorations leading to new discoveries.
  2. At the beginning, the scale of exploration must be accessible to the senses and small projects, because it is much easier to share aspects of places, activities and stories when they are proportionate to the capacity for vision and action. It gradually comes to share and be moved by complex landscapes and long-term projects, which are often unattractive, despite being the most significant for the area. At first, the new visitor looks for elements he/she can identify with, which are within his/her reach. So, at the beginning of the new tourism, the favourite destinations are not the centre of Paris or St. Peter’s, but rather the vineyard replanted with historical cultivars discovered by chance, the flood-damaged path opened again thanks to everyone’s voluntary work, and the chapel restored using a technique discovered by a local craftsman.
  3. The narrative techniques and, in general, then construction of places’ memory should be open and allow for personal and subjective interaction. Images are more powerful than words, fragmentation and the art of patchwork prevail over the systematic fresco, and surprise is more important than preparatory information. It starts with the idea that the new tourist likes to feed on culture but prefers to enjoy small portions rather than follow a fixed menu.

It is fundamental to make both host and guest responsible for the narration of the place, dedicating time and space to ‘didactic’ experiments to justify, also from an ethical point of view, the interpretative subjectivity that characterises the relationship between gesture and register, experience and narration, emotion and rationality.

It is necessary to train visitors to listen and locals to tell stories through ‘conscious storytelling’ performances, once the impossibility of a documentary restitution of places without a subjective and emotional vision has been recognised. This approach emphasises and gives explicit meaning to interpretative aspects, qualifying experience as a privileged space of knowledge and judgement, not only personal, but also for others, who are interested in comparing different kinds of subjectivity.

In summary, the approach to unknown areas – whether tourist or migratory – should be active, local, slow, curious and cooperative between host and guest. This not only represents a source of qualified local development, but also represents an inclusive and pacifying form of knowledge, which is finally desirable and can also be shared by the new generations of inhabitants of the planet.

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