Un turismo equilibrato e sostenibile deve mettere al centro l’incontro tra visitatori e comunità ospitanti, valorizzando le differenze culturali e favorendo un dialogo reciproco.

Gianluca Cepollaro, responsabile del settore Territorio, paesaggio e cultura del TSM (Trentino school of management ) dirige dalla nascita la Step, scuola per il governo del territorio e del paesaggio, unica istituzione italiana di formazione sul tema estesa a operatori, funzionari e studenti.

Paolo Castelnovi, paesaggista e urbanista, è Presidente della Fondazione Landscapefor, con sedi a Torino e Genova.

(Cliccando qui è possibile vedere e ascoltare in video una intervista a Gianluca Cepollaro)

Le prospettive di un diverso modo di fare turismo, legato all’esperienza, sono spesso tradite da una concezione superficiale e solipsistica dell’esperienza, senza capacità di dialogo e di ascolto degli altri e di attenzione curiosa alle differenze e alle specificità. Dove queste rimangono, ci sono gli anticorpi per contenere l’overtourism e il consumo delle risorse primarie.

Paolo Castelnovi

Il tema riguarda gli aspetti che possiamo utilizzare di una nuova modalità turistica e della relativa comunicazione per mettere a punto un modello di utilizzo equilibrato delle risorse dei territori meno urbani e delle relative comunità, spesso in declino irreversibile. Occorre tenere conto dei rischi di dinamiche aberranti, come l’overtourism o le fragilità di processi nascenti, come l’interesse delle nuove generazioni per modalità di conoscenza diretta, non mediata da apparati sistematici, in continuità con l’esperienza e la percezione individuale.
Vorremmo un tuo contributo ad analizzare il tema, di sollevare le critiche più decisive e semmai di
indicare buone pratiche e sperimentazioni da consultare.

Gianluca Cepollaro

Partiamo da una cornice di considerazioni generali sull’evoluzione del turismo e sui rapporti di questo con le comunità locali.
Secondo me stiamo vivendo un periodo di trasfigurazione dei riferimenti ideali per interpretare il rapporto tra comunità e turismo che è mosso dal grande cambiamento dell’idea stessa di esperienza (come già sottolineato nel vostro documento introduttivo).
Noi pensavamo al turismo come una grande metafora dell’incontro, in cui l’ospite ospita l’ospite facendo evolvere la loro relazione nell’esperienza condivisa dell’incontro stesso. Oggi che proclamiamo l’importanza dell’esperienza nel turismo di fatto abbiamo perduto il criterio di esplorazione del costrutto di esperienza, che ha una profondità e un’articolazione di cui oggi quasi sempre si propone solo una parodia.
Basta, per rendersi conto della profondità del tema, l’etimo della parola: ex – per – iri . Ci sono almeno tre dimensioni nel termine: ex, che indica provenienza, appartenenza e in qualche misura induce al dominio dell’identità, per, che indica attraversamento, esplorazione, contatti e convergenze, e poi iri, che apre alla ricerca, al ciò che non è ancora accaduto, alla capacità di tener conto del futuro.
La complessità del termine, nonostante le retoriche del turismo esperienziale, non è più tenuta in considerazione e tutto si riduce ad una sorta di mimo delle attività, generando emozioni
superficiali, come se si surfasse sull’onda profonda dell’esperienza reale, dell’incontro, della conoscenza e del racconto. Era una modalità di relazione tra ospiti che permetteva di fare della conversazione il fulcro del fenomeno turistico, con le sue retoriche e le sue fascinazioni. Ora abbiamo perso quasi completamente questa dimensione dell’incontro e dell’esperienza paritaria e operativa che ne conseguiva per entrambe le posizioni di ospite. Si sono approfondite le separazioni tra ospite, ridotto a un ruolo di puro servizio, e ospite, indotto ad azioni programmate, senza sfridi e spazi creativi.
Una nuova dimensione turistica “utile” culturalmente sia al visitatore che all’abitante deve necessariamente appoggiarsi ad un processo esperienziale condiviso che mantenga al centro l’incontro tra diversità. Il problema si misura con il cambiamento dell’idea stessa di comunità, ancora basato sull’idea di un visitatore che arriva e una comunità che lo accoglie. Oggi le relazioni sono cambiate a livello strutturale, soprattutto perché la comunità ospitante non è più riconoscibile, omogenea ed essa stessa non ha più un’immagine unitaria di sé.
La percezione che la comunità ha di se stessa è la chiave per impostare in modo corretto il tema del turismo, soprattutto a fronte di un turismo crescente e motivato in modo sempre più ambiguo ed eterogeneo, anche se comunque si dovrà fare anche un lavoro sulla domanda troppo omologante.
In ogni caso le comunità reagiscono in modo diverso alla pressione turistica e questo imposta la relativa “sanità” del rapporto, che troppo spesso è generica e disattenta alle specificità locali.
Una rappresentazione rigida, difensiva della propria identità, incrociata con prestazioni alla moda, omologate, è forse l’offerta strategicamente peggiore, che porta velocemente allo sradicamento sia della comunità ospitante che dell’ospite, dove la metafora di riferimento non è l’incontro ma l’indifferenza, una sospensione dell’empatia dell’incontro e tutto diventa un puro servizio senza relazioni coevolutive tra le parti.
In questo senso è utile l’idea della confusione tra le parti, in cui ci si rende conto della positività dei flussi di conoscenza tra ospiti e ospiti e li si favorisce senza un gioco di ruoli di domanda e offerta predefinito.
In questa prospettiva la necessità di presidiare i territori montani porta a far crescere un nuovo tipo di comunità locale, in cui visitatori e residenti sono entrambi chiamati ad una responsabilità
comune che nel tempo, nei casi migliori, arriva a comportamenti virtuosi, fino alla autolimitazione dell’overtourism. E’ un comportamento che nelle Dolomiti in qualche misura si sta riscontrando, con dinamiche di collaborazione, racconto integrato, qualche volta conflitto tra locali e forestieri, che in ogni caso comporta un interesse per il patrimonio locale e contrasta il pericolo di indifferenza e omologazione.

>>> Clicca qui per vedere e ascoltare in video questa parte del dialogo.


La presenza di comportamenti culturalmente consapevoli e di una tradizione di parità tra ospitante e ospitato è un laboratorio per sperimentare una nuova modalità turistica, dove il racconto e la memoria acquistano un valore che oggi, nella transizione digitale, rischia di perdersi.

Paolo Castelnovi

In trend di cambiamento strutturale che hai tracciato, è interessante capire come ti pare si stiano sviluppando le situazioni reali, in quello stato di transizione in cui sono compresenti situazioni contradditorie e mancano modelli di riferimento di gestione culturale e politica che incoraggino le buone pratiche e che limitino i danni di quelle cattive, che abbiamo lasciato crescere senza attenzione e senza controllo (in Catalogna pare che il tema dell’overtourism sia percepito come minaccia come e più dell’immigrazione).
Infatti credo che in molti luoghi si sia in una situazione di statu nascenti, in cui si sviluppano
dinamiche germinali, preziose ma fragili, che dovremmo cogliere per tempo e capire come curare nel tempo, facendole diventare il motore di nuove comunità, in Trentino e non solo.

Gianluca Cepollaro

Credo che nell’area trentina stia crescendo una consapevolezza dei rischi che questo modello di sviluppo del turismo comporta, al di là (o proprio per) i successi quantitativi che vedono l’ambito crescere costantemente in numero di visitatori soddisfatti.
Anche tra gli operatori strategici, come Trentino marketing, ci si rende conto del rischio di avviare processi crescenti velocemente e con grande inerzia, difficili da fermare alle soglie di sostenibilità,
mentre la riflessione culturale e la sua applicazione diffusa, l’unica in grado di metabolizzare e rendere governabili tali processi, richiede tempi lunghi. E’ un problema difficile da risolvere, perché quello dei comportamenti culturalmente consapevoli sembra l’unico argine a fronte del disastro dell’overtourism, ma i tempi di maturazione culturale ne rendono difficile l’applicazione a
fronte di fenomeni rapidi e devastanti come l’economia da airb&b e pizza.
Il turismo rimane un grande motore di sviluppo dei territori montani, ma ormai si è capito che non è l’unico e ci si sta dedicando anche ad altri aspetti di economia locale.
In questo senso credo che le buone pratiche siano interessanti se però si appoggiano costruzioni di pensiero e reti di elaborazione generale estese. Ad esempio sul tema del racconto, che avete messo in luce nel documento di apertura, stiamo sviluppando un progetto interessante, che riguarda il tema del territorio e dell’abitare generale al di là del turismo.
Uno chef di grande livello culturale, capace di ragionare su tutto l’arco che va dalla qualità del cibo a quella del territorio, sta raccontando da alcuni anni la sua professionalità in modo coinvolgente; a me piacerebbe che il racconto di personalità di questo genere uscisse dallo spazio socioeconomico del lavoro, della produzione e si ampliasse al racconto degli altri aspetti e valori della vita di montagna, al tempo libero, ai comportamenti sociali, ai desideri fondativi.
E’ questa qualità della vita che diventa l’oggetto di ricerca, che forse contiene i valori che interessano anche il nuovo visitatore, a metà tra nuovo abitante e antropologo affascinato.
Si diventa buoni ospiti della nuova generazione se si è capaci di vivere con quelle modalità e quai comportamenti. Non solo, ma questi aspetti devono far parte del racconto che affascina il turista, che a questo punto riporta la qualità della vita che consente si essere dei bravi ospiti. Non si comunica più solo di un prodotto o un’emozione dedicata al turista perché ne faccia esperienza, ma di un modello di comportamenti integrato e motivato che la città ormai permette solo raramente. Quello che interessa al turista consapevole
È dietro i servizi e i prodotti del territorio, è il territorio stesso, e d’altra parte valorizzare il back stage porta in evidenza il rischio che la qualità della vita peggiori drasticamente per chi fornisce servizi al turista, perdendo l’allure di ospite e diventando un semplice servitore, privato delle qualità della vita che altri a questo punto gli rapinano.

>>> Clicca qui per vedere e ascoltare in video questa parte del dialogo.


Ci sono barriere da superare sia per il visitatore, che non può più accontentarsi della falsa offerta di servizi “da signore” massificati, ma anche nell’organizzazione del settore, per rendere nuovamente attraenti i posti di lavoro, nel migliorare le disponibilità all’incontro e al racconto.

Paolo Castelnovi

Siamo al centro del tema. La possibilità di confrontare situazioni molto diverse aiuta. La situazione trentina, di comunità piuttosto forti e attente a difendersi dai rischi dell’overtourism non le salva dalla pressione critica ma in ogni caso le mette in posizione di consapevolezza e di ricerca di soluzioni, che potrebbero essere prese a modello in altre situazioni molto meno attrezzate in questa prospettiva, e con comunità locali meno coese o molto indebolite, come nel resto delle alpi italiane ad esempio. D’altra parte la pressione è molto alta e perversa: viene il sospetto che la domanda che tu chiami indifferente (ai luoghi) sia una domanda di prestazioni di pura servitù.

Indipendentemente dal luogo in cui si svolge. Si vuole sentirsi signori per qualche giorno, e si hanno come modelli le vasche, i massaggi e le cure del corpo del medio oriente sognato dal 1700 e rappresentato oggi dalle varie Doha e Abu Dabhi, nuove Las Vegas (mancanti forse solo di un adeguato versante per il piacere femminile, che in occidente costituisce una quota molto significativa della domanda). Questa è il main stream, quando il ministro Santanchè dice che nella Riviera toscana mancano 15.000 addetti al turismo, dice che mancano 15.000 servi (ed è per questo che forse non li trova, almeno italiani).
In questa coatta dimensione culturale la domanda turistica è paradossalmente sempre meno
legata alle specificità dei luoghi da esplorare, e sempre più alle attrezzature di cui godere le
prestazioni, spesso standardizzate e fruite in appositi non-luoghi (esempio di scuola le SPA di cui ogni hotel che di rispetti si è dotato).
Se in Trentino più facilmente che in altri territori questa domanda è di fatto metabolizzata in un complesso di prestazioni molto ricco e specifico valle per valle, prevalentemente erogate da abitanti locali (nuovi o vecchi, poi lo vedremo), la tua raccomandazione è concretamente
praticabile: c’è un soggetto che può raccontare la sua vita, bisogna trovare una soluzione per i territori in cui questa comunità non c’è più, e gli addetti al turismo sono “mercenari”, spesso provenienti dalla città e che alla città ritornano, finita la stagione. Per loro il racconto sarebbe interessantissimo, ma certamente non ha nulla a che fare con l’edificante spinta all’esplorazione di cui si parlava prima.
Contemporaneamente a questa dinamica di asservimento momentaneo dei territori non urbani da parte ei cittadini, c’è chi cerca spazi fisici e culturali alternativi alla città, per abitare meglio, e trova, magari per brevi periodi, luoghi, spesso poco dotati di una forte comunità ospitante, ma disponibili ad essere abitati a bassissimo costo e a “rilasciare lentamente” i propri fascini.
Per questi nuovi abitanti il turismo può essere una risorsa, per lo più individuale, senza una
integrazione collettiva che ne renda possibile un racconto corale. Quindi probabilmente genererà un modo di fare, uno “stile” con offerte diverse da quelle locali tradizionali, che ci aspettiamo.

Gianluca Cepollaro

Questo ragionamento mi porta a tre riflessioni: riguardo il lavoro per il turismo come servizio, poi le comunità che si vanno ricostruendo, e infine le competenze necessarie.
Per il primo punto se vogliamo dare spazio a tutta la complessità del fenomeno non possiamo schematizzare mettendo da un lato i signori e dall’altro i servi. Semmai si deve descrivere la situazione come agita da servi da entrambe le parti. Il turismo dell’indifferenza è fatto non da signori ma da servi: non è un servo quello delle file in autostrada, al bancomat, alla fruizione affollata di monumenti o luoghi che chiederebbero raccoglimento. L’indifferenza genera servi, perché annulla la fecondità, il piacere che nasce dalla relazione con altro di cui si è curiosi.
Ovviamente non c’è altra chiave se non quella culturale per venirne fuori.
Il secondo aspetto è quella della comunità locale. Abbiamo già condiviso la metafora del vaso rotto aggiustato secondo la modalità zen, che prende una nuova forma e comunque viene diversamente percepito. Qui c’è il problema centrale, perché noi ci ostiniamo a pensare il nuovo come ricostruzione del vecchio e non stiamo attenti alle prestazioni diverse che ci chiede una situazione di cambiamento come quella attuale. Occorre uno sforzo di immaginazione, che consenta di ricomporre l’esistente in un modo inedito.
Il terzo punto, quello delle competenze. Nella mia generazione il lavoro nel turismo aveva un grande appeal, mentre oggi non attrae più tanto. Un po’ è dovuto al generale rifiuto del lavoro per altri, che perde senso per i più giovani, un po’ dipende dall’organizzazione del settore, che si è organizzato in modo fordista, con tempi e condizioni ritenute ormai spesso insopportabili o sopportate di mala voglia (e quindi senza quei valori aggiunti di cui abbiamo prima richiesto una consistente presenza).
Questo dovrebbe essere un segnale per riorganizzare il settore. E’ un tema complesso, che va affrontato con capacità di declinazione luogo per luogo, ma che deve essere recuperato insieme al tema della passione per il viaggio e la curiosità da parte della domanda.

>>> Clicca qui per vedere e ascoltare in video questa parte del dialogo.


Il tema del racconto, e più in generale del dialogo tra ospitante e ospitato deve essere approfondito: la prospettiva giusta è quella di ottenere una mediazione culturale tra sistemi cognitivi e affettivi diversi , capacità di suscitare la curiosità e il rispetto degli uni e degli altri. E’ una competenza che va riconquistata, dopo che si è perduta quella spontanea prodotta da comunità locali salde e vivaci

Paolo Castelnovi

Proviamo a fare un approfondimento sul versante degli strumenti, e tra questi il racconto e la capacità di autorappresentazione. Da una parte quello del racconto è un problema di consapevolezza di sé, dall’altra il racconto è affascinante se è corale e diventa una delle caratteristiche del luogo e non solo del testimone.
Questo conta anche per chi pensa alle strategie formative: quella del racconto dovrebbe essere una delle competenze di base e non di quelle specializzate, superando definitivamente la logica
della guida connessa a un luogo, ma piuttosto aprendo a una diffusa capacità di raccontare il proprio pezzetto come una tessera di un puzzle-romanzo.
Lo stesso si richiede come capacità di ascolto per il visitatore…anche qui si dovrebbe essere capaci di un’educazione che sviluppi e non reprima una disponibilità spontanea alla curiosità e allo stupore che si ha da bambini. E’ una sorta di competenza che vale per chi racconta ad altri il proprio territorio, sia per chi ascolta, da visitatore, e fa proprie le storie raccontate unendole alle emozioni che direttamente derivano dall’esperienza del territorio attraverso il paesaggio.
Ci sono esperienze promettenti (oltre Castiglioni e il suo bel lavoro sulla didattica del paesaggio nelle scuole primarie)?

Gianluca Cepollaro

Noi oggi (sia come Step che come Accademia della montagna) cerchiamo di formare persone che non indicano con il dito le cose, ma che cercano di svolgere una azione di mediazione tra due stili di pensiero diversi. In questo senso l’avere messo al centro il tema del paesaggio, che è proprio l’ambito territoriale della mediazione culturale.
Noi non apprendiamo i nuovi paesaggi se non “comprendendoli” in quelli che già conosciamo.
Un esempio: io d’estate abito da decenni ai piedi del Monte Bulgheria (a Scario, un paese sulla costa cilentana). Dovevo venire in Trentino e lentamente capire il senso della “montagna” per trovare voglia di andarci e di apprezzarlo: prima non era presente nel mio immaginario e neppure lo percepivo. Conosciamo attraverso la lingua madre e le esperienze affettive e cognitive iniziali, tutto il resto va mediato rispetto a quelle. Possono aiutare nella mediazione tutti quelli che incontri e che in qualche modo ascolti. Noi con Step abbiamo lavorato moltissimo sugli aspetti del paesaggio meno scientifici e più “politici” molto importanti per la conoscenza “affettiva” e la mediazione culturale turistica.
Siamo a un nodo fondamentale dei processi di insegnamento e di apprendimento, che deve evitare ogni logica istruttiva. Si ha istruzione dove si ha una idea chiusa, statica e difensiva della conoscenza, che viene erogata come una denotazione: ci si limita ad istruire a comando, senza considerare la dimensione emozionale e affettiva, che pure sono sempre presenti, e si trascura la capacità di sostenere la curiosità dell’ascoltatore (che di fatto è la capacità di cura che si deve attivare nella operazione di comunicazione della conoscenza, interessando, non dicendo il superfluo, mantenendo alta l’attenzione). Misurato in questo modo il contributo della guida tradizionale (anche con le tecnologie digitali) spesso è per il 90% superfluo e il restante 10% viene erogato in modo da dimenticarlo velocemente. Siamo già tra i servizi del turismo dell’indifferenza.

>>> Clicca qui per vedere e ascoltare in video questa parte del dialogo.


I servizi di mediazione culturale con il visitatore fanno parte della famiglia benemerita di attività del “prendersi cura”, adeguate, proporzionate, attente alle specificità del contesto e dell’altro. Il tema di declinare i servizi del turismo in questo senso è forse quello più importante per le strategie di qualificazione del turismo anche in realtà “avanzate” come il Trentino

Paolo Castelnovi

Mi sembra forte e interessante l’equazione servizi per il nuovo turismo = servizi per prendersi cura, che va declinato, perché si deve tener conto anche degli effetti in questa fase, in cui fare la fila all’aeroporto e per l’audioguida nel museo viene ancora vissuta come un diritto, il frutto di una scelta, come i pellegrinaggi religiosi. Nel caos di questa fase di transizione del modo di abitare tutti i turismi, anche i peggiori convivono nella sfera illusoria dei servizi a cui si ha diritto.
Probabilmente occorre differenziare, evidenziare le differenze: è un momento in cui il motto
gambiniano “unificare ovunque possibile, differenziare ove necessario” impone un difficile lavoro di differenziazione, sia nei servizi che nella domanda, se no i nostri sforzi si annegheranno nel gorgo generale.
Continuo a pensare che diffondere le buone pratiche sia un buon lavoro di base per costruire una visibilità di questo diverso modo di abitare e di visitare. In questo senso il Trentino è considerato da molti un modello (anzi si sta già facendo avanti l’opportunistico “eh tanto loro sono bravissimi da decenni e quindi sono inimitabili…”. Dovete poterlo raccontare come una vicenda politica e culturale corale, ma articolata e agita in mille modi diversi in tante esperienze locali.

Gianluca Cepollaro

Sono d’accordissimo. Tieni conto che scontiamo un periodo di euforia, in cui si sono rimosse tutte le analisi di complessità e si stanno vendendo successi che dovrebbero essere analizzati con senso critico, quello necessario per poter evolvere. Anche in Trentino arrivano le driving forces che agitano gli altri territori, come ad esempio lo spopolamento, che certo sinora è stato contenuto, ma comunque colpirà duro e imporrà mutamenti significativi, che dobbiamo poter guardare per tempo senza illuderci di avere i palliativi sufficienti allo stato dei fatti.
Stiamo lavorando in questo senso con la scuola, lavorando sul ruolo che la cultura può giocare in questa fase nei confronti dei giovani, pensando alle nuove modalità di coinvolgimento culturale e ad una apertura massima all’inaspettato, visto che siamo in un periodo di cambiamenti robusti ein parte imprevisti.

>>> Clicca qui per vedere e ascoltare in video questa parte del dialogo.


L’adozione di modalità di lavoro indirizzate al prendersi cura del contesto e degli interlocutori è fondamentale non solo per gli addetti al turismo ma anche per ogni altro tipo di lavoro terziario e probabilmente è la prospettiva strategica con cui arginare la fuga dal lavoro dei più giovani.

Paolo Castelnovi

Chiudendo sui giovani, secondo te quelle prospettive di nuovi servizi per il turismo sono
interessanti per le nuove generazioni?

Gianluca Cepollaro

Non vale solo per il turismo, vale per tutta l’offerta di lavoro. Il rifiuto del lavoro ordinario dei giovani pone le basi per un cambiamento radicale dell’offerta di lavoro, che probabilmente, opportunamente riorganizzata, può dare un grande incentivo ai processi di equilibrio territoriale.
E’ un cambiamento che non comporta solo effetti sul sistema del lavoro, ma anche, come hai scritto, sui processi territoriali, sul modo di consumare e di abitare. E’ una occasione che non possiamo perdere.

>>> Clicca qui per vedere e ascoltare in video questa parte del dialogo.
« »